L'Occultismo
Moderno, fra
E.Levi ed
A.Crowley
di
Antonio D'Alonzo
l termine
francese occultisme pare
sia stato usato
per la prima
volta da Eliphas
Lévi, ma
ovviamente di là
dal problema
nominale, la
tradizione delle
«scienze
occulte» affonda
le sue radici
nell’era del
cristianesimo
delle origini.
In effetti,
prima del
neologismo
coniato da Lévi,
non esisteva una
distinzione
netta, seppur
ancora
terminologica,
con quello che
Guénon
successivamente
avrebbe indicato
essere il
dominio proprio
dell’«esoterismo»
o
dell’«iniziazione».
Del resto, ancor
oggi, questa
distinzione è
per lo più
teorica, dato
che alcune
pratiche
attraversano gli
ambiti reciproci
di ambedue (per
esempio,
l’alchimia e
l’astrologia).
Una distinzione
interessante è
proposta da
Edward A.
Tiryakian:
«Con “occulto”
intendo
riferirmi a
quelle
particolari
pratiche,
tecniche e
procedure che:
a) si fondano su
forze misteriose
e ben celate,
presenti nella
natura e nel
cosmo pur senza
essere
misurabili o
individuabili
con gli
strumenti della
scienza moderna;
b) che
comportano,
quali
conseguenze
auspicate oppure
realizzate,
risultati
empirici, tra i
quali si possono
annoverare la
conoscenza del
corso pratico
degli eventi e
l’alterazione
degli
avvenimenti
stessi rispetto
allo svolgimento
che avrebbero
avuto se non ci
fosse stato
questo
particolare
intervento… Con
“esoterico”,
invece, voglio
indicare il
complesso di
quei sistemi di
pensiero
filosofico-religiosi
che
costituiscono le
fondamenta di
quelle pratiche
e tecniche
occulte cui
sopra mi
riferivo. Ciò
significa che
l’esoterismo fa
riferimento a
rappresentazioni
che racchiudono
conoscenze di
più vasta
portata sulla
natura e sul
cosmo, le
riflessioni
epistemologiche
e ontologiche
sulla realtà
ultima, le quali
tutte insieme
compongono quel
bagaglio di
nozioni che sta
alla base di
ogni
procedimento
occulto.
Ricorrendo a una
analogia, si può
affermare che la
conoscenza
esoterica sta
alle pratiche
occulte come il
complesso delle
nozioni della
fisica teorica
sta alle
applicazioni
dell’ingegneria.»
Ma come
giustamente
rileva l’insigne
studioso
dell’esoterismo
Antoine Faivre,
la distinzione
di Tiryakian, è
diventata
ammissibile
solamente dal
diciannovesimo
secolo, quando
l’atteggiamento
corrivo e
velleitario
nell’approccio
di alcuni
esoteristi rese
necessario
l’utilizzo del
neologismo,
«occultismo»,
coniato da
Eliphas Lévi.
Comunque, seppur
sommariamente,
possiamo tentare
di ricondurre
questo carattere
prevalentemente
pragmatico o
sperimentale
all’occultismo,
che del resto
come ogni
pratica ha
bisogno di un
bagaglio di
nozioni su cui
radicarsi,
necessità
assicuratagli
dall’esoterismo.
D’altro canto,
potremmo tentare
di vedere
nell’occultismo
una
degenerazione
dell’esoterismo,
o addirittura
come fanno i
perennialisti
una deviazione.
Ma la dicotomia
tra l’occultismo
«pratico» e
l’esoterismo
«teorico» resta
molto
significativa,
sul piano
semantico.
Inoltre, è
verosimile che
una delle
scienze occulte
per eccellenza
come la magia
possieda da
sempre, e fin
dall’inizio,
questo carattere
pratico e
operativo.
Secondo gli
studi di J. H.
King, Frazer,
Marett, Mauss,
la magia, che
secondo loro fu
la prima forma
di religione,
nasce
dall’osservazione
delle calamità
naturali, alle
quali l’uomo
attribuisce una
forza
impersonale,
denominata
presso i
Melanesiani Mana
e gli Irochesi
Orenda. Questa
potenza anonima
che sconvolge la
natura con la
sua furia, è
dominata dal
mago ed
asservita ai
suoi scopi
individuali, o
piegata alle
esigenze
utilitaristiche
della comunità.
Come rilevano
Hubert e Mauss,
l’abilità del
mago consente
anche di violare
tabù ed
interdizioni,
che saranno
invece
rigorosamente
rispettati
dall’uomo
religioso. La
magia ha quindi,
già nella sua
essenza,
un’impronta di
trasgressione,
che la porta a
scavalcare
qualunque
divieto, pur di
raggiungere il
suo scopo
immediato.
Conserva, cioè
in sé, un
carattere
meramente
pratico,
operativo. Se
l’occultismo si
presenta come la
deriva pratica,
sperimentale,
delle conoscenze
esoteriche, è
ineluttabilmente
avvinto agli
stessi assunti.
Dopo aver
appurato ciò che
lo differenzia
dall’esoterismo
(per lo più,
come abbiamo
visto, si tratta
di eterogenesi
dei fini, più
che di ambiti
dottrinali
distinti),
passiamo ora in
rassegna gli
assunti che
condivide con
quest’ultimo:
1) il
reticolo delle
corrispondenze.
Si tratta della
classica idea
dell’identità
macro-microcosmo
espressa
mirabilmente
dalla Tavola
Smeraldina («Ciò
che è in alto è
come ciò che è
in basso, ciò
che è in basso è
come ciò che è
in alto»).
Esistono
analogie e
corrispondenze
in tutto
l’universo, che
altro non è che
un rimando di
specchi, una
ridondanza di
segni da
dis-velare
(«avere occhi
per leggere e
orecchie per
sentire»). Il
corpo umano
altro non è che
un’immagine del
cosmo. In India
l’occhio singolo
simboleggia il
sole, entrambi
invece
richiamano il
sole e la luna.
La scatola
cranica
raffigura la
luna, così come
l’alito il
vento, le ossa
le pietre, i
capelli l’erba
della terra. Ed
ancora, il
ventre
simboleggia le
grotte della
terra, gli
intestini i
labirinti, le
vene e le
arterie il sole,
la colonna
vertebrale l’Axis
Mundi, ecc.; in
questo reticolo
di
corrispondenze
trovare la
maniera giusta
(«gli occhi per
leggere, ecc…»)
per operare
sulla Natura
significa di
rimando influire
mimeticamente o
simpaticamente
sul microcosmo,
se non
addirittura sui
corpi altrui. Si
dicono mimetici,
quei riti
fondati
sull’assunto che
il simile
influisce sul
simile, per cui
imitare
simbolicamente
l’atto
desiderato, ne
garantisce
magicamente il
risultato
concreto
(esempio
classico, i riti
magici di «buon
auspicio»). Si
dicono
simpatici,
invece, quelli
in cui è la
parte ad agire
sul tutto
(esempio,
l’incantesimo
sul feticcio
personale della
vittima, come la
ciocca dei
capelli o il
lembo
dell’indumento
intimo).
Abbiamo quindi
visto che tanto
per l’occultista
che per
l’esoterista, il
Cosmo è un
geroglifico di
misteri e segni
da dis-velare,
tracce e rimandi
intercalati in
una ierofania
dell’Assoluto
che è dentro e
fuori l’Essere e
il Creato. Le
corrispondenze
ineriscono
all’ordine della
Natura fisica o
invisibile, come
abbiamo
verificato sopra
esaminando le
analogie tra il
corpo umano e
gli elementi
fisici. Ma
possono anche
palesarsi tra la
stessa Natura e
i testi sacri
(un esempio
chiaro in questo
senso lo
fornisce la
Qabbalah). In
quest’ultimo
caso esiste una
credula fiducia
nella
possibilità che
i testi rivelati
possano chiarire
il senso ultimo
della storia e
del suo divenire
(quello che
comunemente
s’intende con
«millenarismo»).
Si deve
aggiungere che
questo secondo
tipo di
concordanza è
più diffuso tra
gli esoteristi
di quanto non lo
sia tra gli
occultisti, in
quanto i primi
ricercano
maggiormente la
legittimazione
dell’autorità
tradizionale,
mentre i secondi
sovente si
pongono in un
atteggiamento di
forte ribellione
verso la potestà
religiosa.
2) Il corpo
vivente della
Natura. Ancora
nel Rinascimento
si concepisce la
Natura come un
organismo vivo,
pulsante, un
gioco di
simpatie e
antipatie tra
forze che si
attraggono e
respingono
reciprocamente.
Successivamente
l’avvento della
scienza moderna
avrà cura di
portare a
termine la
desacralizzazione
della Natura. Ma
già con
Paracelso, la
Naturphilosophie
conobbe il suo
massimo
splendore:
nemmeno nel
Medio Evo si era
osato azzardare
l’idea di
conoscere Dio
attraverso la
Natura. Quindi
non solo
esistono delle
corrispondenze
analogiche tra
macro e
microcosmo, ma
esse, seppur
velate
dall’illusione
sottesa al
fenomenico
(quello che poi
Kant
ribattezzerà
noumeno), sono a
portata di mano,
raggiungibili,
dato che la
Natura stessa è
un organismo
vivo, «magico»
nel senso
operativo del
termine.
3) La facoltà
dell’Immaginazione.
Nella sua
etimologia la
parola Imago
rimanda già
all’ars magica,
alla capacità di
leggere
l’invisibile
(l’occhio «che
sa leggere»).
Solo chi ha
sviluppato
coscientemente
l’immaginazione
riesce a
disvelare le
cose nella loro
infinitezza («If
the doors of
perception were
cleansed,
everything would
appear to man as
it is,
infinite»,
[Blake]. Per
Blake il mondo
dell’Immaginazione
è infinito ed
eterno, al
contrario del
mondo della
generazione). Il
Vero mondo è
quindi là, a
disposizione di
chi abbia
sviluppato il
potere naturale
dell’Immaginazione.
Si tratta di
motivi presenti
prima nel
platonismo e poi
nel
neoplatonismo
(anche se, a
ragion del vero,
per Platone più
che
l’Immaginazione
può la nòesis ,
l’intelletto. Ma
la dottrina dei
due mondi, il
sensibile e il
sovrasensibile,
il primo mera
copia imperfetta
del secondo, è
la stessa).
4) La condizione
della
trasmutazione.
Quest’esperienza
riguarda tanto
la possibilità
di trasformare,
esteriormente o
interiormente,
l’operatore
stesso, quanto
un oggetto
materiale o
naturale in un
altro. Può
quindi essere
attinente ad un
rito di
passaggio, alla
fenomenologia
della «seconda
nascita», alla
dinamica
alchemica del
nigredo-albedo-rubedo.
Dove questi
ultimi tre
termini
simboleggiano,
rispettivamente,
l’opera al
«nero», la morte
profana, la
discesa agli
inferi, la morte
nel ventre del
mostro
iniziatico,
simbolismo,
quest’ultimo,
importantissimo
nelle
iniziazioni di
pubertà. L’opera
al «bianco», il
rischiaramento,
l’illuminazione,
il cammino verso
la pietra
filosofale.
L’opera al
«rosso», la
perfezione
realizzata,
l’uscita dalla
condizione
individuale,
l’accesso ai
Grandi Misteri.
Ma la condizione
della
trasmutazione
può anche
riguardare la
possibilità di
operare sulla
Natura stessa.
Questi,
sommariamente,
sono i caratteri
comuni
all’esoterismo e
all’occultismo.
Ne esistono
tuttavia altri
due, che sono
però attinenti
solamente
all’esoterismo
vero e proprio,
e che perciò non
prenderemo in
considerazione.
Possiamo quindi
appurare come
non esista una
rigida
demarcazione
attinente ai
campi
d’applicazione
dell’occultismo
e
dell’esoterismo,
e che la
differenza vada
ricercata
piuttosto nella
«modalità»
d’applicazione,
nell’atteggiamento
che si tiene al
riguardo della
ricerca. Non si
tratta cioè, di
collocare
determinate
dottrine sotto
un dominio,
piuttosto che
sotto un altro,
ma di scegliere
come
indirizzarsi
verso le stesse,
se ricercando
uno sbocco
assolutamente
pratico, o
viceversa
instradandosi
verso
un’assimilazione
maggiormente
teorica,
spirituale.
Secondo alcuni
studiosi
esisterebbe una
correlazione
strettissima tra
la modernità e
l’occultismo. In
effetti, se
consideriamo
l’era moderna
nelle sue manie
e idiosincrasie,
come per esempio
l’esagerata
sensibilità al
sensazionale e
il rigetto verso
il pensiero
contemplativo -
ma anche verso
tutta la cultura
umanistica in
generale -
possiamo vedere
il filo rosso
che la lega
all’occultismo.
L’attenzione
smodata al
paranormale, a
tutto ciò che
irrompe nella
routine
quotidiana, che
manifestandosi
sembra
conflagrare le
categorie
dell’ordinario,
rimanda
all’ansia per
l’attesa di
nuovi dei, per
tutto ciò che
possa di nuovo
conferire uno
spessore di
nuovo senso
all’esistenza.
Esiste oggi una
«fame»
generalizzata di
simboli, di
sacro, che si
manifesta sotto
forma di vecchi
e nuovi culti
(si può
consultare a tal
proposito lo
studio del
CESNUR sulle
nuove religioni
in Italia).
Basta comprare
alcune riviste
«specializzate»
in edicola, per
rendersi conto
di come siano
trattati
argomenti
disparati e
scarsamente
omogenei,
mettendoli in
relazione con
fenomeni che non
hanno nulla di
«paranormale»
(un tipico
esempio sono i
famigerati
cerchi del
grano).
Possiamo
riconoscere
questo
parallelismo. Se
l’occultista
avvalla una
maggiore
attenzione alla
pratica, quindi
al mondo
fenomenico,
l’esoterista
coltiva nella
sua formazione
una spiccata
propensione
all’intimismo,
alla
spiritualità
silenziosa e
lontana dai
clamorosi rumori
del mondo
profano. Alla
metà del secolo
diciannovesimo,
la cultura
risente ancora
dell’utopismo
settecentesco
dei Lumi,
dell’escatologia
rivoluzionaria
marxiana, del
clima generale
di fiducia
positivista
nelle conquiste
della scienza.
Anzi, possiamo
definire
l’Ottocento il
secolo
dell’utopia (per
lo meno fino a
Nietzsche, il
quale però
rimane in
continuità
oggettiva con lo
scientismo
modernista,
almeno se
facciamo nostra
la lettura che
ne fa
Heidegger). Con
l’avvento delle
ciminiere e
della crescente
urbanizzazione
delle campagne,
l’immaginario
collettivo si
nutre quindi di
attesa per il
sensazionale e
lo strabiliante.
È uno stato
febbrile,
pre-futurista,
quello che
s’impadronisce
delle masse
pronte a
strabuzzare gli
occhi tanto
davanti a una
colata
d’acciaio,
quanto a un
tavolino «che
balla». Gli
spiriti «battono
i colpi», le
rudimentali
catene di
montaggio
emettono i primi
rumori
industriali: si
sottrae alla
Natura il lento
germinare della
sua creazione.
Non c’è più
bisogno di
attendere i
ritmi naturali
delle stagioni,
è un mondo che
vuole venire
alla luce
interamente e
subito. Gli
spiriti non
sonnecchiano più
nel ventre
silenzioso di
una Natura
sacra, ma sono
evocati a
piacimento dai
viventi, che li
costringono a
battere colpi, a
muovere i
tavolini: a
partecipare al
rumore del nuovo
Mondo. Inizia a
imporsi il
kardecismo, che
fa proseliti in
patria e fuori
(specialmente in
Brasile), anche
se fuori degli
ambienti
spiritistici
farà molta più
fatica a
conquistare una
fetta di
notorietà.
Dall’eredità del
romanzo gotico
settecentesco
nasce il genere
fantasy, anche
detta
letteratura
fantastica, i
cui padri sono
principalmente
tutta l’opera di
E.A. Poe, il Frankenstein (1818)
di Mary Shelley,
e il Dracula (1897)
di B. Stoker. In
questo filone
sono mescolati
(specialmente
nel filone sword
and sorcery)
elementi desunti
dalle saghe
nordiche e dai
poemi
cavallereschi,
con rimandi alla
parapsicologia e
all’occulto,
integrando il
tutto in un
tessuto
narrativo
fortemente
intriso di
riferimenti
magici e
fantastici.
Concludendo,
questo è il
clima nel quale
può radicarsi
l’occultismo
ottocentesco.
Del resto, per
il sociologo
Tiryakian questo
nesso tra
modernità e
interesse per i
fenomeni occulti
non si esaurisce
nell’Ottocento,
ma riguarda
anche e
soprattutto la
nostra era. Per
Tiryakian si
assisterebbe
oggi ad un
progressivo
fenomeno di
«secolarizzazione
del demoniaco»,
dopo che lo
stesso ha
riguardato i
costumi
religiosi. Si
tratterebbe,
quindi, di un
tentativo di
proclamare dopo
la morte di Dio,
anche quella del
diavolo. In
questo senso la
modernità
(postmodernità?)
ha bisogno di
affrancarsi del
tutto dalla
fede, dalle
paure
ancestrali, da
quel mondo
dell’ignoto che
si cerca ora
nietzscheanamente
di smascherare
(possiamo anche
leggere in tal
senso il
«ritorno del
perturbante» di
Freud). Abbiamo
quindi visto che
il complesso di
dottrine,
insegnamenti e
pratiche, dal
quale prende
avvio quello che
nell’Ottocento
sarà
ribattezzato
«occultismo»,
non differisce
dal «corpus»
proprio
dell’esoterismo.
Si deve tuttavia
tenere presente
che il campo
dottrinale della
ricerca
esoterica non si
presenta come
una
giurisdizione
originaria e
distinta dagli
altri ambiti del
sapere
umanistico, ma
subisce
dall’inizio una
contaminazione
fatale con
questi ultimi.
Cosicché è solo
in seguito
all’appropriazione
della filosofia
da parte dei
pensatori
scolastici, che
gli eruditi del
diciassettesimo
secolo decidono
di rivendicare
le loro
competenze
acquisite nello
studio
dell’Ermetismo
neo-alessandrino,
nella Kabbala
cristiana,
nell’Alchimia,
ecc. È quindi
frutto di una
contingenza
storica che il
corpus
dell’esoterismo
occidentale sia
stato questo e
non un altro. È
ovvio allora
che, come sopra
ricordato, non
ci sia mai stata
una netta
demarcazione con
la philosophia
occulta, e che
si sia trattato
di una
differenza
relativa (per lo
più applicata
retroattivamente
dagli esoteristi
del
diciannovesimo
secolo) alla
mentalità con
cui erano
vissuti gli
insegnamenti
segreti (in
maniera pratica
per gli
occultisti,
viceversa
spiritualmente
per gli
esoteristi).
Se quindi
l’ambito
dottrinale
dell’occultismo,
prima del secolo
diciannovesimo è
lo stesso
dell’esoterismo,
la corrente
occultista
comincia
propriamente con
l’opera di
Eliphas Lévi
(1810-1875).
Alfred Charles
Constant, questo
il vero nome di
cui Eliphas Lévi
è la traduzione
ebraica, nel suo Dogme
et rituel de la
haute magie si
propone di
rivelare i
grandi segreti
delle religioni,
della scienza
primitiva dei
maghi, e l’unità
del dogma
universale. Il
sincretismo di
Lévi è evidente:
facendo
affidamento su
un’erudizione
notevole, ma
confusa e priva
di rigore
metodologico,
sembra ricalcare
la falsariga
dell’opera di
Cornelius
Agrippa, che può
senz’altro
essere
considerato come
l’antesignano
della corrente
occultista
ottocentesca. In
effetti, nel suo De
occulta
philosophia
libri tres (1531),
Agrippa amalgama
magia,
astrologia,
Qabbalah,
teurgia,
medicina, studi
di botanica e
metallurgia. Ma
la tendenza alla
commistione
enciclopedica
era già presente
nel De
vita coelius
comparanda (1489)
di Marsilio
Ficino. Eliphas
Lévi dunque
ingigantisce
quelli che erano
i vizi dei primi
proto-occultisti
(ma per quanto
detto sopra, si
rilevano
diversamente
come esoteristi
se li poniamo in
continuità
oggettiva non
più con Lévi, ma
con, ad esempio,
Eugène
Canseliet. Il
problema è tutto
nel dove si
vuole vedere il
filo rosso. La
storia della
cultura, in tal
senso, si presta
a molteplici
chiavi di
lettura).
L’erudizione di
Lévi si propone
di amalgamare
tutto. Egli
crede ad una
filosofia
occulta, madre e
nutrice di tutte
le religioni,
che possiamo
tranquillamente
identificare con
quellaphilosophia
perennis che
più tardi i
perennialisti
rivendicheranno
come
eminentemente
metafisica e
sottratta alla
storia (F.
Schuon parlerà
di «unità
trascendente
delle
religioni»). Nel
definire la
filosofia
occulta, Eliphas
Lévi asserisce
testualmente:
«La filosofia
occulta sembra
essere stata la
nutrice o
madrina di Tutte
le religioni, la
molla segreta di
tutte le forze
intellettuali,
la chiave di
tutte le
oscurità divine
e la regina
assoluta della
società, al
tempo in cui
essa era
riservata
esclusivamente
all’educazione
dei sacerdoti e
dei re.»
Questa filosofia
occulta «nutrice
e madrina di
tutte le
religioni»,
«molla segreta»,
«chiave», ecc.,
può essere, con
un certo margine
di distinzione,
accomunata alla
«Tradizione»
cara ai
perennialisti,
nelle sue
diverse versioni
(«Tradizione
Primordiale»,
«unità
trascendente
delle
religioni»,
«dottrina
primordiale»,
ecc.). Del
resto, l’idea
dell’esistenza
di una philosophia
perennis (come
Coomaraswamy
definì ancora la
«Tradizione»)
che irrora e
germina tutte le
filosofie e
religioni, non
appare
certamente in
Occidente con
Guénon e i
perennialisti,
ma fa la sua
comparsa fin dal
Rinascimento con
Marsilio Ficino
e Pico della
Mirandola. Già
nel Medioevo
bizantino,
Psello e Pletone
avevano parlato
di una prisca
philosophia che
univa in una
catena comune e
ininterrotta
Zoroastro,
Ermete
Trismegisto,
Orfeo,
Aglaophemos,
Pitagora,
Platone, le
Sibille. Ficino
a questa catena
sapienzale
aggiungerà la
magia, ed allora
si avrà la
philosophia
perennis – o se
preferiamo,
letteralmente la
philosophia
occulta – come
la intenderà
Eliphas Lévi.
Esiste tuttavia
una differenza
essenziale tra
l’idea della
philosophia
perennis come la
concepiva Ficino
e gli eruditi
del
Rinascimento,
come la
concepisce
Eliphas Lévi, e
come
successivamente
la realizzeranno
i perennialisti.
Ficino si
preoccupava di
rintracciare la
filosofia
perenne
esclusivamente
tra le dottrine
del bacino
Mediterraneo,
mentre i secondi
non esiteranno a
conferire alla
stessa una
dimensione
universale,
allargata cioè a
tutte le culture
orientali ed
occidentali. Nei
suoi libri,
Eliphas Lévi
crede
all’esistenza di
un «segreto
formidabile, la
cui rivelazione
ha già
rovesciato il
mondo», ed
altresì anche
all’esistenza di
una «scienza
vera e una
falsa, una magia
divina e una
infernale». Egli
quindi opta per
una filosofia
occulta a
profilo alto, in
grado di
richiamare gli
insegnamenti
dell’ermetismo
alessandrino,
dell’astrologia,
della Kabbala
cristiana, ecc.
Ma il suo
sincretismo gli
impedisce di
scivolare anche
verso forme di
bassa magia, che
contemperano
l’utilizzo di
esorcismi,
scongiuri,
invocazioni,
prodigi, ecc. In
altre parole,
verso pratiche
da fattucchiere.
Quando parliamo
di «pratiche da
fattucchiere»
non vogliamo
usare
un’espressione
denigratoria
verso l’autore,
né tantomeno
verso alcune
forme piuttosto
popolari di
credenze e
superstizioni
pseudo-religiose.
Qui non stiamo
dando dei
giudizi di
merito sulla
presunta
«verità» di un
insieme di
usanze e
pratiche
popolari,
eventualmente
comparandole con
il maggior
spessore
metafisico di
dottrine la cui
conclamata
«ortodossia» non
ha bisogno di
presentazioni.
Non vogliamo
cioè liquidare
con un giudizio
sprezzante tutta
la religiosità
popolare, che
comunque trova
un posto
importante
all’interno
degli studi di
antropologia
culturale o di
storia del
folklore.
Senz’altro anche
i malefici e i
sortilegi dei
fattucchieri
sono degni
d’attenzione. Il
punto è un
altro. Il
curioso
sincretismo di
Eliphas Lévi, la
cui unica
preoccupazione
sembra essere
quella di
raccogliere dati
e nozioni, lo
porta ad
un’erudizione
confusa e
sommaria che si
riflette nel
piano
complessivo
della sua opera.
Ma accingiamoci
a chiarire
meglio ciò di
cui stiamo
trattando.
Eliphas Lévi
accanto a dei
trattati di Alta
magia ( Il
Rituale
dell’Alta Magia, La
chiave dei
grandi misteri, Il
dogma dell’Alta
Magia,
ecc.), ha
scritto anche un
breve trattato, Magia
delle campagne e
stregoneria dei
pastori.
Il curatore
stesso del
volume (che
raccoglie gli
scritti di altri
autori, oltre il
nostro)
chiarisce nella
sua premessa che
quella di Lévi è
una «breve
panoramica
“magica” nella
quale
confluiscono,
sincretisticamente,
motivi
pagano-cristiani,
ridotti in
chiave
superstiziosa
dall’impiego
fattone da fasce
sociali rurali
basse o
degradate. Sulla
attendibilità
delle formule,
mutile e
travisate […]
Lévi medesimo
non tralascia di
mettere
sull’avviso i
lettori. Egli
tuttavia ritiene
che la reale
efficacia –
malgrado tutto –
di tali
pratiche,
risieda nella
fede sincera che
ne accompagna
l’esecuzione…»
Riteniamo che il
prefatore abbia
assolutamente
ragione. Ma
allora si deve
scegliere:
perché o si fa
un’opera
storiografica
sulla magia,
rinunciando così
a parlare di
Verità e di
fede, o ci si
sposta sul
terreno
dell’ontologia e
si ignorano i
tagli
enciclopedici. È
questo il limite
di Eliphas Lévi.
Grandissima
erudizione, ma
poi però
evidentemente si
sente sminuito e
intrappolato
nello stereotipo
del topo di
biblioteca, e
allora si porta
su di un piano
più elevato dove
non è più un
semplice
studioso, ma un
iniziato
autorizzato a
parlare di
verità
trascendenti. In
questo fu molto
più rigoroso
René Guénon che
recise
drasticamente il
campo
dell’ortodossia
dalle
suggestioni
della modernità,
anche se poi
andò incontro ad
una serie di
generalizzazioni
affrettate. Ma
Eliphas Lévi - a
differenza di
Guénon - non si
risolse a
scogliere il
dilemma tra
l’essere un
«semplice»
erudito o un
iniziato.
Magia delle
campagne e
stregoneria dei
pastori si
apre con una
generica
descrizione dei
disturbi
psicosensoriali
che colpiscono
gli uomini delle
campagne:
«Nella
solitudine, in
mezzo al lavoro
della
vegetazione, le
forze istintive
e magnetiche
dell’uomo
aumentano e si
esaltano, le
forti
esaltazioni
degli umori
degli alberi,
l’odore dei
fieni, gli aromi
di certi fiori
riempiono l’aria
di ebbrezza e di
vertigine;
allora le
persone
impressionabili
cadono
facilmente in
una specie di
estasi che le fa
sognare da
sveglie.»
È allora che,
sempre secondo
Lévi, «uccelli
notturni», «lupi
mannari» e
«folletti»
tormentano
ripetutamente i
contadini.
Tuttavia,
Eliphas Lévi ci
ammonisce che
queste visioni
«sono reali e
terribili, e non
bisogna ridere
dei nostri
vecchi contadini
bretoni quando
raccontano ciò
che han visto» ( Magia
delle campagne e
stregoneria dei
pastori,
Atanor, p. 11).
Già in questo
primo passo,
s’incontra
subito una
difficoltà
logica. Eliphas
Lévi non si
accorge di
cadere in un
evidente
ossimoro con
l’enunciato
sopra riportato,
perché se si
sostiene, come
fa lui, che le
apparizioni dei
lupi mannari e
dei folletti
sono «reali e
terribili»
diventa poi
difficile
classificare le
suddette
apparizioni come
delle semplici
visioni, dovute
al manifestarsi
di ripetuti
stati di estasi
che fanno
sognare le
persone «da
sveglie».
Eliphas Lévi,
purtroppo, non
fa neppure lo
sforzo di
assicurarci che
sta esprimendosi
da una
prospettiva
«relativistica»,
come diremmo
oggi, secondo la
quale non
esistono
enunciati di
verità
indipendenti dal
soggetto. In
altre parole,
banalizzando
molto il
concetto, se un
soggetto Z si
crede X o Y,
anche se per il
mondo esterno
lui è Z, per la
soggettività Z
rimane reale la
credenza di
essere X o Y.
Sorvolando su
questo punto,
arriviamo
all’individuazione
delle cause
sottese ai
disturbi
descritti da
Eliphas Lévi. Si
tratterebbe di
una sorta di
fenomeni di
magnetismo
naturale, dovuto
a turbini
magnetici, che
«operano prodigi
simili a quelli
dell’elettricità,
come
l’attrazione o
la repulsione
degli oggetti
inerti, delle
correnti
atmosferiche,
nonché influenze
simpatiche o
antipatiche
pronunziatissime
(sic)». Appare
qui un’altra
delle
caratteristiche
dell’occultismo
ottocentesco: il
curioso
tentativo di
conciliare il
sovrannaturale
con la scienza
moderna. È
evidente nel
passo sopra
riportato,
l’influenza
esercitata sul
pensiero di Lévi
tanto dal
mesmerismo
quanto dal
kardecismo. È
singolare il
modo in cui
Eliphas Lévi si
sforza di
articolare
queste influenze
riadattandole
alla gergalità
scientifica
dell’epoca.
Anche da queste
semplici
sfumature
all’interno del
tessuto
narrativo,
possiamo
rimarcare
l’ingenuo
sincretismo
proprio al
pensiero di
Lévi. Abbiamo
visto che tra le
caratteristiche
principali
dell’occultismo
ottocentesco c’è
l’utilizzo
abnorme del
sincretismo,
tanto tra
dottrine che si
possono
considerare come
appartenenti ad
uno stesso
paesaggio che
tra campi del
sapere
eterogenei che
sarebbe
preferibile
tenere distinti.
La commistione
che fa Eliphas
Lévi tra la
scienza moderna,
il kardecismo,
il mesmerismo,
ed in generale
la magia,
rientra in
quest’ultimo
caso.
Quest’amalgama
infelice di
magia e scienza
risalta in piena
evidenza già
dalle pagine
iniziali del suo Magia
delle campagne e
stregoneria dei
pastori,
dove possiamo
costatare come
il sincretismo
dell’autore non
si arresta ad un
piano puramente
letterario, ma
si estende anche
alla dimensione
ontologica. In
Italia, ai
nostri giorni,
il sincretismo
letterario è
tipico di
Elémire Zolla,
che ad esempio,
nel suo Uscite
dal Mondo,
accosta Collodi
a Lévi-Strauss,
Dumézil, Eliade.
Intendiamoci, il
sincretismo
letterario o
filosofico è
stato tipico di
quella corrente
denominata
«postmodernismo»,
che ebbe un
certo successo e
divenne di moda
intorno agli
anni ’80. Ma la
contaminazione
dei generi
tradizionali del
sapere, che era
tipica del
postmodernismo,
si limitava a
riguardare il
piano culturale
(anche perché la
metafisica era,
da dopo
Heidegger e
Wittengstein,
dichiarata
fuorigioco). In
altre parole, si
rimaneva su di
un terreno
«nominale». Gli
occultisti
ottocenteschi,
viceversa, non
hanno alcuna
remora ad
estendere il
loro sincretismo
anche al piano
ontologico.
Rimanendo
all’esempio
sopra citato, si
può affermare
che cadono in un
«realismo»
piuttosto
ingenuo (per
rendermi più
chiaro ai
lettori che mi
seguono e che
non hanno
dimestichezza
con il gergo
filosofico,
ricordo che il
«nominalismo» è
quella dottrina
per cui i
concetti
generali non
esistono come
«cose»
indipendenti
fuori del
linguaggio o
della mente
umana. Mentre,
per converso, il
«realismo»
ammette
l’esistenza dei
suddetti
concetti
generali come
enti reali,
indipendenti dal
pensiero).
Ritorniamo per
un istante al
passo sopra
citato in cui
Eliphas Lévi
sembra
abbracciare il
pensiero
scientifico e le
sue procedure
(«Intorno a
queste calamite
disordinate si
formano dei
turbini
magnetici e si
operano spesso
prodigi analoghi
a quelli
dell’elettricità,
come
l’attrazione o
la repulsione
degli oggetti
inerti, delle
correnti
atmosferiche…
»), e
confrontiamolo
con il seguente:
«Abbiamo
spiegato perché
i pastori sono
più soggetti
degli altri a
disordini
magnetici;
conducenti di
greggi che
calamitano con
la loro volontà
buona o cattiva,
essi subiscono
l’influenza
delle anime
animali riunite
sotto la loro
direzione, le
quali diventano
come appendici
della propria; i
pastori, con le
loro infermità
morali,
producono nei
montoni malattie
fisiche e
subiscono di
ritorno la
reazione delle
petulanze dei
loro becchi e
dei capricci
delle capre; se
il pastore è di
una natura
assorbente il
gregge lo
diviene esso
pure ed attira
talvolta a sé
tutto il vigore
e tutta la
salute d’un
gregge vicino.»
È evidente che
Eliphas Lévi non
riesce a
sfuggire alle
suggestioni
della scienza
moderna quando
parla di
«turbini
magnetici» ed
elettricità, ma
poi
incredibilmente
ricade
all’interno
dell’orizzonte
del
soprannaturale,
caratteristico
della cultura
del tempo. Non è
sorprendente che
Eliphas Lévi usi
una gergalità
pseudo-scientifica,
ma che non
riesca a
scegliere quale
corno del
dilemma
afferrare. E
questo perché
Lévi vuole usare
la sua
erudizione per
«triturare»
tutto, in un
sincretismo che
affianca
superficialmente
le scoperte
scientifiche
ottocentesche,
il gusto per il
gotico e per il
paranormale.
Saint-Yves
d’Alveidre
(1842-1909) è
conosciuto per
la famosa teoria
della
«sinarchia» che
avrebbe il suo
centro in un
luogo misterioso
chiamato
Agarttha.
Prendendo spunto
dal libro di
Saint-Yves
d’Alveidre,
quest’ipotesi fu
discussa anche
da Ferdinand
Ossendowski ( Bestie,
uomini e dei),
da René Guénon (Il
re del mondo),
e recentemente
anche da Umberto
Eco nel suo Il
pendolo di
Foucault.
Il re del mondo di
Guénon si apre
proprio con il
riferimento al
libro di
d’Alveidre. Tra
l’altro Guénon
ci informa che
l’idea di
Agarttha era già
comparsa nei
libri di uno
scrittore «di
scarsa serietà»,
Louis Jacolliet, Le
Fils de Dieu, Le
spiritisme dans
le Monde (da Il
re del mondo,
Adelphi, p. 11).
Guénon
preferisce
invece mettere
in continuità
oggettiva
l’opera di
Saint-Yves
d’Alveidre con
quella di
Ossendowski,
leggere quella
alla luce delle
conferme e delle
similitudini che
ne ricava da
quest’ultima.
Facciamo un
passo indietro.
Il giovane
Saint-Yves
d’Alveidre aveva
trascorso la sua
infanzia in una
durissima
«colonia per
bambini». Al
termine di
quest’esperienza
aveva studiato
medicina e letto
Fabre d’Olivet e
Joseph de
Maistre. Nel
1877 sposando la
contessa di
Keller, riesce
ad ottenere il
titolo di
marchese,
divenendo così
un d’Alveidre.
Saint-Yves
d’Alveidre
scrive molti
libri ( Mission
actuelle des
ouvriers, Mission
des juifs, La
France vraie,
ecc.), ma quelli
più famosi
rimangono
ovviamente Mission
de l’Indie e l’Archéometrie.
In Mission
de l’Indie,
Saint-Yves
d’Alveidre
tratta, come già
detto, la
nozione
d’Agarttha e
quella della
sinarchia. Le
due nozioni sono
intrinsecamente
correlate,
perché Agarttha
è il tòpos,
il luogo
geografico che
rende possibile
la sinarchia.
Per Saint-Yves
d’Alveidre
Agarttha è un
«centro del
Mondo» nascosto
nel cuore
dell’Asia, in
una sorta di
gigantesca
ragnatela che
estende le sue
ramificazioni
sotto gli oceani
e sotto tutti i
continenti. Lo
scopo di
Agarttha è il
controllo
assoluto e
totale, esteso a
tutto il
pianeta. Più
particolarmente
Saint-Yves
d’Alveidre parla
di una dinastia
solare,
insediata a
Ayadhaya, la cui
origine risale
al Manu del
nostro ciclo,
ossia a
Vaivaswata. La
sinarchia è
quindi una forma
di governo
trinitario, in
grado di
assicurare
l’espletamento
delle tre
funzioni sociali
essenziali,
ossia
l’insegnamento,
la giustizia,
l’economia.
Saint-Yves
d’Alveidre per
descrivere la
sinarchia usa
una metafora
essenziale,
parla di tre
camere contenute
in una maggiore
denominata
«metafisica».
L’ordinamento
sociale è
rigorosamente
deterministico,
in base agli
assunti
metafisici.
«Milioni di dwija (nati
due volte), di yogin (uniti
in Dio) formano
il grande
Circolo, o
piuttosto
l’emisfero […]
Al di sopra di
essi, e in
cammino verso
Questo Centro,
troviamo
cinquemila
pundit
(pandavan),
alcuni dei quali
Svolgono il
servizio di
insegnamento
propriamente
detto; altri,
quello sul
Campo, come
soldati della
polizia interna
o di quella
delle cento
porte. […] Il
loro numero
(5000)
corrisponde a
quello delle
radici della
lingua vedica
[…] Il circolo
più elevato e
più prossimo al
centro
misterioso è
composto da
dodici membri,
che
rappresentano
l’iniziazione
suprema.»
(Mission de
l’Indie).
Ossendowski
successivamente
parlando del Re
del Mondo,
asserisce che
quest’ultimo è
in rapporto con
gli uomini che
dirigono il
destino della
Terra. Se i
pensieri dei
condottieri sono
graditi al Re
del Mondo,
quest’ultimo
darà ad essi il
suo appoggio
invisibile,
altrimenti
saranno
destinati ad un
sicuro
fallimento.
Possiamo, in
definitiva,
immaginare la
sinarchia come
l’apice, il
punto più
interno di una
spirale di
cerchi
concentrici. Per
Saint-Yves
d’Alveidre
questo centro
ultimo, il
Motore Immobile
aristotelico,
che tutto muove
senza essere a
sua volta mosso,
è con Agarttha
stesso. L’altro
libro famoso di
Saint-Yves
d’Alveidre è L’Archéomètre.
Con questo
termine l’autore
francese vuole
indicare la
presunta misura
dell’Arché
(letteralmente
in greco,
«principio»),
ossia «la forza
cosmica
universale».
L’Archè
permetterebbe
allora, secondo
Saint-Yves
d’Alveidre, di
applicare alle
scienze
secondarie, alle
arti, e a tutte
le produzioni
umane, gli
arcani del Verbo
divino. In altre
parole, si
tratterebbe di
prolungare nel
dominio delle
applicazioni
derivate, il
campo dei
Principi primi.
Ma l’Archè in
fondo, non è una
scienza, ma uno
strumento che
consente di
ottenere la
conoscenza
suprema. Ma il
paradosso di
Saint-Yves
d’Alveidre è che
il suo strumento
meraviglioso, la
«chiave» in
grado di
disvelare gli
arcani del
mondo, altro non
è che una sorta
di diagramma
formato da
cerchi di
cartone, con
disegni incisi
dello Zodiaco,
capace di
rispondere,
sempre secondo
l’autore
francese, alle
domande degli
interlocutori.
Philippe Vachot
(Maitre
Philippe), deve
essere ricordato
più come
guaritore, che
come occultista.
Egli, infatti,
fu
principalmente
un taumaturgo.
Arriviamo
quindi al
«Balzac
dell’occultismo»,
il dottor Gérard
Encausse,
conosciuto
soprattutto con
lo pseudonimo di
Papus. Il
sincretismo di
quest’autore
riuscì ad
armonizzare con
maggior successo
alcuni elementi
eterogenei del
Cristianesimo,
dell’esoterismo
e
dell’occultismo,
più di quanto
non avesse fatto
Eliphas Lévi.
Papus ha
lasciato con
duecentosessanta
opere, un corpus
immenso.
Inizialmente
Gérard Encausse
(1865-1916)
s’interessò alla
medicina, ma poi
la lasciò presto
per dedicarsi
alle discipline
occulte. Dalla
lettura della
Médecine
nouvelle di
Louis Lucas,
Papus riceve la
convinzione che
il «principio di
vita»
(ricordiamoci
che tutto il
clima culturale
dell’epoca
risente delle
suggestioni
dell’evoluzionismo
darwiniano: il
secondo
Nietzsche –
quello della
fase
illuministica,
di Aurora, di
Umano, troppo
umano I e II, di
La Gaia scienza
– Marx, Henri
Bergson con il
suo «slancio
vitale»), sia
regolato
dall’enormone,
ossia una
condensazione
del movimento
fisico. Per
Papus è una
folgorazione,
che gli fa
maturare la
decisione di
abbandonare la
vita profana.
Dall’incontro
con Henri
Delaage ottiene
di essere
iniziato al
Martinismo: da
questo preciso
istante assume
lo pseudonimo di
Papus (il dio
della medicina
nel Nuctamerone di
Apollonio). È
importante però
evidenziare che
la società dei
Martinisti fu
fondata proprio
da Papus, con lo
scopo declamato
di divulgare
l’opera di
Saint-Martin.
Papus non fu
solamente un
grande erudito e
un infaticabile
divulgatore, ma
anche un
eccellente
organizzatore.
Vediamo qualche
altro dato
biografico. Dopo
l’iniziazione al
Martinismo,
conosce
Stanislas de
Guaïta e
Péladan, ed
insieme a loro
forma il Supremo
Consiglio della
Rosacroce
cabalistica.
Fonda il Gruppo
indipendente
degli studi
esoterici, e
successivamente
apre a Parigi
delle logge
martiniste.
Contribuisce
alla nascita di
alcune celebri
riviste, come L’Initiation, L’Union
occulte, Le
Voile d’Isis (la
rivista su cui
comparvero molti
articoli di René
Guénon). Nel
1894 si laurea
in medicina, e
circa tre anni
dopo insieme con
Jollivet-Castelet
e Sédir apre un
nuovo circolo,
la Scuola
Superiore libera
di scienze
ermetiche (che
avrà, non a
caso, tra i suoi
studenti
Guénon). Nel
1905 è convocato
dallo zar Nicola
II, per una
seduta
spiritica. La
leggenda vuole
che Papus faccia
apparire lo
spettro di
Alessandro III.
Durante la Prima
Guerra mondiale
è impegnato come
medico. Durante
il servizio
contrae una
tubercolosi, che
gli sarà letale.
Come è facile
dedurre dalla
sua biografia,
Papus era uno
spirito molto
dinamico. La
frenesia che gli
fu propria nella
vita attiva, non
poteva non
riflettersi
nella dimensione
interiore ed
intellettuale.
Anche Papus,
come ricordavo
sopra, cadde nel
vizio del
sincretismo, ma
la sua
esposizione è
risultata
leggermente più
chiara rispetto
a quella di
Eliphas Lévi.
Papus dimostrò
anche una
maggior
vicinanza alle
fonti
tradizionali, di
qualunque altro
occultista
dell’epoca. In
effetti, i suoi
sforzi sono
rivolti al
tentativo di
accordare la
magia, lo
spiritismo,
l’occultismo e
la teosofia.
Papus fece anche
parte per un
breve lasso di
tempo della
Società
Teosofica, ma
l’indirizzo
«orientaleggiante»
dato a
quest’ultima
dalla Blavatsky,
lo fece
allontanare.
Papus,
concludendo,
condivide con
Eliphas Lévi e
con molti altri
occultisti della
sua epoca,
l’abuso
dell’erudizione
e del
sincretismo
totalizzante.
Ciò nonostante
le loro opere
hanno
contribuito a
divulgare e a
portare alla
luce
quest’ambito di
studi,
richiamando su
di esso anche
l’attenzione del
mondo
accademico.
Continuando nel
nostro percorso
storico
attraverso
l’occultismo
moderno,
possiamo
ricordare i nomi
di Joséphin
Péladan e di
Paul Sédir.
Joséphin Péladan
(1890-1915), è
un esponente del
cosiddetto
«cristianesimo
esoterico». Per
lui, nel Vangelo
secondo Giovanni
si cela la
chiave per
accedere ad una
dottrina
segreta, di cui
la Chiesa Romana
non conserva più
alcuna memoria,
pur contenendola
inconsapevolmente
nei suoi simboli
e nei suoi riti.
Péladan, anche
se subì
l’influsso del
padre – a sua
volta iniziato –
fu allievo di
Papus, e
frequentò
inoltre un
gruppo
rosicruciano. In
seguito a
contrasti con la
Chiesa, prese le
distanze dalle
autorità
ecclesiastiche,
per formare
un’organizzazione
cattolica
rosicruciana. Le
opere più
importanti di
Joséphin Péladan
sono Comment
on devient mage e L’Occultisme
catholique. In
queste opere
Péladan, sembra
quasi anticipare
Guénon quando
sottolinea la
divisione tra la
forma exoterica
religiosa e
quella esoterica
filosofica
(Guénon non
avrebbe
accettato di
parlare di
«filosofia»
esoterica,
preferendo usare
il termine
«metafisica», ma
non possiamo
dimenticare che
Coomaraswamy
usava
disinvoltamente
l’espressione
«philosophia
perennis», in
luogo di
«Tradizione»).
Péladan equipara
l’occulto al
mistero
astratto, e per
lui la religione
è un adattamento
epocale e
contingente
della Verità ad
un ciclo
storico.
Curiosamente – e
ben diversamente
dal posteriore
perennialismo –
il simbolo non è
per lui
universale, ma è
un adattamento
del Verbo
all’ordine
contingente. Per
Péladan il
simbolo è il
linguaggio
intellettuale
che permette di
penetrare la
Verità del
Verbo: ma il
simbolo non
possiede una
struttura
atemporale,
archetipica,
ierofanica per
dirla con
Eliade. Un altro
punto di
divergenza dal
postumo
perennialismo,
Péladan la
registra quando
sostiene che è
la Tradizione a
dover essere
tradotta per
adattarsi
all’epoca
presente. Per
Guénon era vero
l’esatto
contrario: si
trattava di
trascendere
l’hic et nunc
per raggiungere
il dominio
dell’inesprimibile,
del non-umano.
Péladan sotto
questo profilo è
meno
tradizionale e
ortodosso,
ancora una volta
si può notare
che
l’occultismo,
come ricordavo
sopra, nasce
dallo stesso
terreno del
mondo moderno.
Come Joséphin
Péladan, anche
Paul Sédir
(1871-1926;
pseudonimo di
Yvon Le Loup)
può essere
considerato un
esponente del
cosiddetto
«cristianesimo
esoterico». Si
deve tuttavia
precisare che in
questo contesto
il termine
«esoterico» deve
essere applicato
in senso lato,
dato che siamo
più propriamente
in un ambito
inerente
all’occultismo,
piuttosto che
all’esoterismo.
Del resto se
richiamiamo alla
memoria come la
marcata
attitudine
all’applicazione
pratica sia
propriamente
peculiare
dell’occultismo,
avremo occasione
di constatare
come anche le
ricerche di
Sédir risentano
di questa
pregiudiziale
«sperimentale».
Ciò nonostante,
non si può
nascondere
dietro una
generica –
seppur efficace
–
classificazione,
il rapporto di
filiazione e
contaminazione
che esiste tra
occultismo ed
esoterismo.
Tutte le
classificazioni
sono in fondo un
po’ arbitrarie,
come sosteneva
Michel Foucault.
Le differenze
esistono, senza
dubbio, ma sono
prevalentemente
nominali, più
che reali, ossia
sono create dal
linguaggio che
ordina ed
esclude. In
altre parole,
quando parliamo
del «vero»
esoterismo,
sarebbe
interessante
scandagliare un
po’ più in
profondità i
presupposti del
campo di
definizione che
ci interessa di
applicare alla
corrente o
dottrina da
esaminare.
Scopriremmo così
che molte volte
si tratta
solamente del
riflesso delle
nostre
predisposizioni
e idiosincrasie,
a costituire il
marchio DOC di
quello che noi
riteniamo essere
l’ortodossia
della «dottrina»
esoterica. Ancor
più chiaramente.
Non ci sono
criteri
oggettivi e
universali che
possano aiutarci
a stabilire che,
ad esempio,
Papus deve
essere
etichettato come
occultista,
anziché come
esoterista.
Dipende, quindi,
da ciò che noi
intendiamo con
«occultismo» ed
«esoterismo»: e
anche la
definizione di
Edward A.
Tiryakian, che
all’inizio ho
fatto mia, ha un
valore solo
nominale,
indicativo.
Sbagliamo in
misura minore,
viceversa,
quando ci
affidiamo
all’analisi
storica. In
questo senso è
pacifico
affermare che
all’inizio del
diciannovesimo
secolo si
sviluppa una
corrente di
ricercatori
delle scienze
segrete, che si
differenzia
dagli esponenti
delle altre
correnti
esoteriche
occidentali, per
uno speciale
gusto e
predilezione per
l’applicazione
pratica.
Storicamente,
cioè, questo
gruppo di
esponenti dalle
concezioni
eterogenee e
differenziate
non possono
essere
considerati come
appartenenti ad
una stessa
scuola: ma ciò
che li avvicina
tra loro, e li
diversifica
dagli
«esoteristi»
propriamente
detti, è questa
«mentalità
pratica». Si
tratta però di
un’analisi che è
possibile fare
solo
storicamente,
non
dottrinalmente,
perché i margini
del
«dentro/fuori» a
una categoria
sono molto ampi
e relativi.
Ritornando a
Sédir, possiamo
constatare come
anch’egli
subisca
l’influenza
iniziale di
Papus, prima di
allontanarsene a
sua volta
(appare evidente
quindi il ruolo
pedagogico di
Papus verso
tutti i giovani
che all’epoca
erano attratti
dall’arcano,
anche se poi
molti avrebbero
in seguito preso
le distanze dal
maestro). Sédir
si distacca da
Papus
all’improvviso,
in modo
misterioso,
dichiarando che
un enigmatico
gran maestro lo
avrebbe
contattato per
trasmettergli i
suoi
insegnamenti.
Egli, così
folgorato
dall’incontro,
decide di
consacrarsi a
Cristo, formando
un gruppo
denominato
Amicizie
spirituali.
L’insegnamento
del «maestro»
che Sédir vuole
divulgare è
tutto incentrato
sul tentativo di
ritrovare il
messaggio
cristologico
originale, e si
basa su elementi
del mesmerismo e
della magia
operativa. Le
dottrine del
gruppo di Sédir
sono state
presentate in
molte
conferenze, ed
in qualche
libro, e per
quello che ne
sappiamo sono
oggi
introvabili. La
peculiarità del
«metodo» di
Sédir è in una
pratica
divinatoria
garantita
dall’utilizzo di
specchi magici,
in cui
l’operatore
dovrebbe
rinvenire delle
particolari
visioni.
Ovviamente
queste
«apparizioni»
devono essere
considerate più
delle proiezioni
inconsce, che
dei prodromi del
futuro. Non
siamo in grado
di sapere cosa
pensasse Sédir
al riguardo di
queste visioni,
se le
considerasse
anticipazioni di
eventi
predestinati ad
accadere, oppure
se molto meno
ingenuamente,
subisse
l’influsso di
una concezione
dell’Es del tipo
di quella di
Groddeck, nella
sua estensione
più «magistica».
Sembra che
questa tecnica
sia stata usata
per la prima
volta da
Cagliostro, e si
sa per certo che
interessò anche
degli
psicoanalisti
come Gèza Roheim
(da I maestri
dell’occulto di
Andrè Nataf).
Arriviamo
infine ad
Aleister Crowley
(1875-1947), sul
quale ci
soffermeremo un
po’ più a lungo.
Ricorderemo
brevemente la
sua biografia,
perché a
differenza di
molti altri
esoteristi e
occultisti, qui
la vita stessa
del protagonista
si confonde con
l’opera. Edward
Alexander
Crowley, nacque
a Leaminton da
una famiglia di
birrai molto
devota
(naturalmente
Crowley
millantava una
discendenza
illustre da un
ceppo nobile).
Finì presto in
un collegio
religioso, e si
può ironizzare
sul curioso
fenomeno per cui
sovente proprio
i giovani che
crescono in
ambienti
familiari
morbosamente
osservanti,
diventano, nella
maturità, gli
acerrimi nemici
del
cristianesimo
(un altro tipico
esempio di
questo fenomeno
di
contrapposizione
radicale e
trasgressiva al
milieu familiare
è quello di
Nietzsche, non a
caso figlio di
un pastore
protestante). Il
giovane Crowley
si appassiona
presto
all’alpinismo,
ma il suo stile
di scalata è
ritenuto dai più
esperti
piuttosto
bizzarro.
L’attrazione
verso le vette
richiama
ovviamente le
conquiste
spirituali: non
possiamo
ignorare che il
simbolo della
Montagna Cosmica
è l’archetipo di
qualsiasi cima o
sommità. La
Montagna Cosmica
non è altro che
un Axis Mundi,
che collega la
Terra al Cielo.
Conquistare la
vetta significa
essere vicini al
Centro del
Mondo, ossia
dimorare-presso-gli-dei.
La scalata
quindi raffigura
l’ascensione
spirituale, e ci
si potrebbe
domandare come
sia possibile
che un
occultista
marcatamente
satanista come
Crowley abbia
avuto questa
predilezione per
le vette. Ma il
punto è che non
esiste una
normatività
dottrinale
assoluta, per
cui il satanista
deve rifuggire
le cime delle
montagne e
prediligere, ad
esempio, le
profondità e gli
abissi della
Terra. Infatti,
gli stessi
abissi possono
simboleggiare
l’unio mystica,
a riprova del
fatto che
l’inconscio
lavora in
maniera
abbastanza
misteriosa e che
la predilezione
primordiale per
un simbolo
anziché che per
un altro, non
significa
alcunché.
Crowley
s’interessava
anche alla
poesia (che
nell’Inghilterra
di fine
Ottocento non
costituiva
certamente una
rarità), e
scrisse una
sorta di
poemetto nel
1898, Aceldema,
che deve essere
considerato più
un inno
satanista
(influenzato da
Baudelaire) che
uno scritto
filosofico. Come
rileva John
Symonds nella
sua biografia
crowleyana, il
poemetto è
abbastanza
insulso. Ma c’è
una strofa molto
significativa in
cui il giovane
Crowley rivela
un precoce gusto
per quella che
potremmo
definire
un’ascesi spinta
agli estremi
limiti della
penitenza e
dell’automortificazione,
o viceversa
delle fantasie
rivelatrici
della presenza
di spiccate
pulsioni
sadomaso («Ogni
degradazione e
ogni infamia /
Tu subirai. /
Come in un sogno
orrendo / Vorrei
porre la testa
sotto il fango /
E gli escrementi
delle donne
indegne; / Che
ti calpesteranno
finché tu /
Inalerai fumi
mortali»).
Davvero si trova
in questo passo
di Aceldema il
rimando alle
suggestioni e
agli incubi
lovecraftiani,
ma anche tanto
materiale
didattico per le
future rockstar,
sedicenti
sataniste, che
calcano i palchi
ai nostri
giorni. Da
questo momento
il giovane
Crowley trova la
sua Via: egli
decide, infatti,
che diventerà un
mago.
Ispirandosi al
celebre passo
dell’Apocalisse
assume il nome
della Bestia.
Nel 1898 il
giovane Crowley
entra a far
parte della
Golden Dawn,
introdotto da un
chimico inglese,
un certo Julian
Baker. Sulla
Golden Dawn,
vale la pena di
dilungarsi un
po’. Il
fondatore della
Golden Dawn è
stato un certo
Samuel Liddel
Mathers, un
accanito
bibliofilo.
Sull’origine
della società
segreta esistono
due versioni,
entrambe
riportate nella
biografia di
Symonds, che
riporterò
compendiandole
qui di seguito,
per tutti i
lettori che non
conoscono la
storia della
Golden Dawn. La
prima ipotesi è
stata resa nota
da W.B. Yeats,
una delle figure
di spicco della
Golden Dawn. La
società segreta
sarebbe stata,
secondo Yeats,
la ramificazione
di un’altra,
ancor più
enigmatica,
organizzazione
iniziatica,
denominata gli
Studiosi di
Ermetica.
Maestri
Sconosciuti si
sarebbero recati
da Mathers e gli
avrebbero
trasmesso le
loro conoscenze.
La seconda
versione è più
elaborata, ma è
unanimemente la
più accreditata.
Alla fine
dell’Ottocento
il reverendo
Alphonsus
Woodford si
rivolge al
dottor Westcott,
per decifrare un
manoscritto
cifrato
acquistato
probabilmente in
una libreria
antiquaria. Il
dottor Westcott
pare sia stato
membro di una
sedicente
società
paramassonica,
la Societas
Rosicruciana in
Anglia. Alla
fine del lavoro
di esegesi, il
dottor Westcott
rinvenì nel
manoscritto
alcune formule
tipiche
dell’alchimia
del sedicesimo
secolo. La cosa
curiosa (ed
anche un po’
inverosimile) è
che in fondo al
manoscritto
c’era
l’indirizzo di
una donna
tedesca di nome
Anna Sprengel,
aderente ad una
società
rosicruciana di
Norimberga, la
Lichte Liebe
Leben Tempel.
Sembra che
Westcott si sia
recato dalla
Sprengel, e sia
stato da lei
iniziato e
incaricato di
fondare una sede
dell’ordine del
Tempel nel Regno
Unito. Nel 1887,
nasce così il
Tempio di
Iside-Urania
degli Studiosi
d’Ermetica
dell’Alba doro
(Golden Dawn). I
gradi iniziatici
della Golden
Dawn ascendevano
progressivamente
con questa
sequenza, che
riguardava i
membri del Primo
Ordine: Neofita,
Zelator,
Theoricus,
Practicus,
Philosophus. A
questo livello -
quello del Primo
Ordine o Ordine
Esterno - gli
iniziati
partecipavano a
riti esoterici,
ma non
praticavano la
magia
cerimoniale. Nel
Secondo Ordine,
anche detto
della Rosa
Croce, i gradi
erano così
ripartiti:
Adeptus Minor,
Adeptus Maior,
Adeptus
Exemptus.
Raggiunti questi
gradi iniziatici
erano consentite
le pratiche
magiche. La sola conditio
sine qua non per
l’utilizzo dei
riti magici era
che fossero
stabiliti i
contatti con i
Capi Segreti.
Mathers, con
l’aiuto della
moglie
sensitiva,
millantò di aver
avuto il
contatto con i
Maestri Segreti,
e si autoinvestì
della carica di
Capo Visibile
dell’Ordine.
Ora, in seno
alla Golden Dawn
era in atto uno
scisma pilotato
principalmente
da William
Butler Yeats, e
diretto contro
la stessa
fazione del
Crowley (che del
resto pretendeva
una
legittimazione
poetica da parte
del vate
irlandese). La
lacerazione
interna non
riuscirà più a
ricomporsi, e
Crowley lascia
la Golden Dawn
prima del suo
definitivo
tramonto e
inizia a
viaggiare e ad
accumulare
esperienze
iniziatiche. Si
reca in Messico,
dove compie dei
riti
d’evocazione del
Serpente
Piumato. Poi
viaggia nel
continente
asiatico,
dall’Indonesia
al Giappone. A
Madras è
iniziato al
Tantrismo, o
meglio ancora,
ad una delle sue
ramificazioni
degenerate della
Via della Mano
Sinistra. A
Parigi, incontra
Rilke e si sposa
con Rose Kelly,
la sorella di un
suo discepolo.
Crowley descrive
il suo
matrimonio con
Rose come
«un’ininterrotta
orgia sessuale»,
finché
quest’ultima non
impazzisce, dopo
aver lasciato
una figlia il
cui nome
richiamava
quello della dea
Lilith.
Ovviamente,
Crowley, da buon
egotista,
rifiutava quasi
tutti i rapporti
interpersonali,
e il suo gusto
parossistico
verso
l’esibizionismo
paradossale lo
spingeva a
scegliere
soprannomi come
«il vagabondo
della
Desolazione».
Durante uno dei
suoi soggiorni
al Cairo sembra
che una medium
gli abbia
ingiunto di
fondare un nuovo
ordine, l’Astrum
Argentinum,
fondato sulla
magia sexualis,
che però Crowley
conosceva già
ampiamente dai
tempi della sua
frequentazione
in India dei
seguaci della
Via della Mano
Sinistra. Nel
1920,
interrogando
l’Yi King,
Crowley si
persuade che per
realizzare la
Grande Opera,
non esiste un
posto più adatto
di Cefalù. Là
sorgerà la sacra
abbazia di
Thelema
(«Inferno della
Cortigiana,
luogo segreto
dell’irrefrenabile
fuoco della
Lussuria e del
tormento eterno
dell’Amore»). Il
tempio dei
thelemiti era ad
un solo piano,
ed aveva una
sola sala
principale
(Sancta
Sanctorum). Sul
pavimento era
disegnato il
pentagramma
inscritto in un
cerchio. Nel
mezzo del
pentagramma era
collocato un
altare
esagonale.
Sull’altare era
depositato il Liber
Legis.
Ad Est sorgeva
un trono
dedicato alla
Bestia e un
braciere
ardente. Ad
Ovest si ergeva
il trono della
Donna Scarlatta.
All’interno
della
circonferenza
erano trascritti
i nomi di
Jahweh. Dipinti
sulle pareti del
tempio facevano
mostra di sé
alcuni ritratti
di Crowley,
uniti a varie
raffigurazione
orgiastiche
(ovviamente, non
abbiamo visto
personalmente il
tempio, ma da
quello che le
varie biografie
riportano sulle
raffigurazioni
decorative, ci
sembra che esse
debbano essere
ricondotte a
tematiche più
satanico-dionisiache,
o ancora più
propriamente
della Via della
Mano Sinistra
che
kundaliniche).
Si arriva così
ad uno strano ed
enigmatico
intreccio, ossia
quello con
Hitler. Non è
mai stato del
tutto chiaro
quali siano
veramente stati
i rapporti tra i
due. In un primo
tempo, sembra
che il Führer
fosse vagamente
turbato e
suggestionato
dalla Grande
Bestia. Non si
deve dimenticare
quali fossero le
radici occulte
del nazismo
(unite ad altre,
che possono
essere
ricondotte alla
degenerazione
assolutistica
del pensiero dei
Lumi): le SS
erano un corpo
d’élite
iniziatico che
si rifaceva ad
elementi indù,
germanico-nordici,
e romanici (più
che ellenici).
Si pensa che
cercassero la
Thule e i
Superiori
invisibili
(ultimamente Rai
Tre si è
occupata
dell’argomento,
ma non si deve
dimenticare che
esiste anche un
saggio ben
scritto
sull’argomento.
Quindi è
naturale che
Hitler cercasse
un contatto con
Crowley,
assimilato dalle
SS ad una sorta
di superuomo. Da
parte sua, anche
il mago inglese
doveva sentire
l’influsso degli
elementi
misteriosofici e
mistici in
generale del
Reich.
Probabilmente,
per un certo
tempo Crowley
fantasticò anche
sulla
possibilità di
esercitare
un’influenza su
Hitler. Poi si
sa come sono gli
inglesi: maghi
neri o no, alla
fine il
nazionalismo dei
figli d’Albione
trionfa su
tutto. Crowley
comincia,
presumibilmente,
a fare la spia
per il suo
paese, e sembra
che persino
Churchill si sia
rivolto a lui
per ottenere la
vittoria,
rifiutandosi
tuttavia di
ascoltare fino
in fondo i suoi
suggerimenti.
Facendo un passo
indietro, nel
frattempo, nel
1923 Crowley era
stato espulso
dal territorio
italiano, per
ordine di
Mussolini, il
quale aveva
iniziato a
perseguitare
tutte le
associazioni
segrete ed
iniziatiche
italiane.
Thelema venne
chiusa e Crowley
ricominciò a
vagabondare, e a
circondarsi di
donne. Dopo
essere stato
internato per un
breve periodo,
Crowley ormai
eroinomane e
folle
(probabilmente
come conseguenza
ed effetto
differito di un
viaggio
intrapreso
qualche anno
prima nel
deserto
algerino, per
evocare uno
spirito del
male: Crowley e
il suo compagno
d’avventura
furono ritrovati
mezzi morti) si
crede un
vampiro.
Riuscirà lo
stesso a morire
naturalmente,
alla non
trascurabile età
di settantatré
anni. Qui
finisce la
biografia di uno
degli uomini più
controversi di
tutti i tempi.
Anche per
Crowley, come
negli altri
autori
dell’occultismo,
non troviamo una
dottrina, un
corpus ben
definito di
insegnamenti, ma
piuttosto una
miscellanea di
elementi
eterogenei, di
credenze
appartenenti a
scuole variegate
e marginalmente
equiparabili. Si
può
omogeneizzare il
caleidoscopio
disciplinare
della scuola
thelemita sotto
il nome di magia
sexualis, ma a
ben vedere al di
là del medium
orgiastico come
strumento
estatico per
realizzare il
superamento
della coscienza
ordinaria, il
prodotto finale
non sta in
piedi. Vediamo
perché:
1) Crowley
sincretizza
nella sua
dottrina
elementi
estrapolati
dalle discipline
indiane (come il
Tantra, e la sua
deformazione
della Via della
Mano Sinistra),
dai culti
misterici
dell’antica
Grecia (come i
riti dionisiaci
ed orfici), e
dal satanismo
medioevale (il
Sabba). Come
abbiamo già
detto, al di là
della sessualità
orgiastica, sono
poche le
affinità tra
tutte queste
pratiche. Ad
esempio, nel
Tantra e nella
Via della Mano
Sinistra non si
praticano
rituali
d’evocazione, al
contrario che
nel Satanismo
dove il fine
ultimo è di
materializzare i
demoni. Nei riti
dionisiaci un
altro potente
medium estatico
è la danza
vorticosa e
frenetica, che
non si ritrova
certamente nelle
asana tantriche.
Inoltre nel
Tantra,
l’energia
kundalinica
viene
controllata,
incanalata,
indirizzata,
mentre nelle
altre pratiche
dionisiache e
sabbatiche si
cerca l’estasi
furiosa che
dissolva la
coscienza nei
flutti
sensoriali. Ma
anche i riti
dionisiaci
differiscono dai
sabba diabolici.
Questi ultimi si
presentano come
una parodia
blasfema e
manichea dei
riti cristiani,
mentre nei primi
si tratta
piuttosto di
affermare, dire
di sì
all’eccesso
vitale, non di
mettere in scena
una dicotomia
manichea (Cristo
- Anticristo;
Dio -Satana). Il
satanismo ha
bisogno per la
sua stessa
ragion d’essere
del Dio buono e
provvidente:
guai, se
quest’ultimo
fosse
contemporaneamente
il principio del
bene e del male,
della felicità e
della
sofferenza.
2) La famosa
legge thelemica
«Fa’ ciò che
Vuoi sarà tutta
la Legge», non
può essere
applicata
unilateralmente
alle pratiche di
magia sexualis,
perché se
interpretata
letteralmente
deve lasciare
libera la
coscienza di
seguire il
proprio daimon,
la propria
vocazione
particolaristica,
e non
costringere il
sé in rituali
che si pretende
di etichettare
come
«liberatori».
Questo
soggettivismo
volontaristico
(«Fa’ ciò che
Vuoi»), per la
verità in
Occidente non
era nuovo
nemmeno ai tempi
di Crowley: se
ne trovano echi
in Sade, Fichte,
Nietzsche.
Quest’ultimo,
però, è meno
grossolanamente
materialista
della Bestia:
«Niente è
vietato. Tutto è
permesso». In
altre parole,
per Nietzsche,
non vi sono
negazioni, al di
fuori della
propria volontà
«Volere libera».
Mentre al
contrario la
scuola
crowleyana dà
per scontato che
coattivamente si
debba volere il
negativo: la
regressione
orgiastica alla
sublimazione
della passione,
il delitto e
l’oltraggio
all’etica e
all’ordine, la
dissoluzione
estatica
all’ascesi, ecc.
Infatti, il
seguito della
legge crowleyana
parla di Amore,
«Amore è la
Legge, amore
sotto il dominio
della volontà».
Anche volendo
sorvolare sulla
riduzione
coatta, molto
freudiana,
dell’amore alla
libido, ci si
potrebbe
chiedere come è
possibile
conciliare la
prima parte
dell’enunciato,
«Fai ciò che
Vuoi sarà tutta
la Legge», con
la seconda,
«Amore sotto il
dominio della
volontà». Perché
se la mia
volontà deve
diventare legge,
devo essere
libero di porre
sotto il dominio
della volontà,
anziché l’amore
orgiastico, la
penitenza e la
rinuncia
monastica, ad
esempio. In
realtà Crowley
dà per scontato
che la
liberazione
delle pulsioni
libidiche sia il
vero fine
dell’essere nel
Mondo: come ho
detto sopra,
ricade
all’interno di
un orizzonte
culturale
superato, quello
del freudismo
(Jung darà
tutt’altra
connotazione
alla libido).
Crowley – ancor
più degli altri
seguaci della
philosophia
occulta, come
Lévi e Papus –
risente
pesantemente
della tentazione
sincretista,
caratteristica
dell’Occultismo
moderno.
Infatti, il suo
sincretismo non
è tanto
speculativo o
culturale,
quanto
pragmatico: egli
è talmente preso
dalla frenesia
che
mette-in-pratica
qualunque
rituale gli
capiti
sottomano, o di
cui abbia un
qualche vago
sentore. Crowley
è al contempo il
discendente
dell’homo faber
classico e
l’antesignano
del tecnocrate
moderno. In lui,
la
volontà-di-fare
subissa il
ripiegamento
spirituale nella
contemplazione.
Con nessun altro
come con lui, si
può constatare
come
l’occultismo sia
un tipico
prodotto della
modernità.
Infatti,
l’insegnamento
crowleyano non
si è estinto, ma
è coltivato e
continuato anche
da diverse
scuole
occultiste
contemporanee
(un paio delle
quali dovrebbero
operare ancora
in Italia,
almeno secondo
le mie
informazioni).
Mi accingo, a
questo punto, a
trarre le
conclusioni
finali su tutto
il periodo
dell’occultismo
moderno, che ho
preso in esame.
È solo nel
diciannovesimo
secolo che fa la
sua comparsa il
neologismo
«occultismo»,
coniato da
Eliphas Lévi,
per definire un
ambito di studi
incentrati sulla
philosophia
occulta
medioevale e
rinascimentale.
La cifra
distintiva e la
novità
dell’occultismo,
sembra risiedere
nella vocazione
sperimentale e
nel suo metodo
pratico, di
contro alle
maggiori
elaborazioni
teoriche che
contraddistinguono
l’esoterismo
vero e proprio.
Quest’inclinazione
pratica
dell’occultismo,
conduce a
riconoscerne
l’attinenza e la
filiazione con
la modernità
(specialmente
nella morbosa
curiosità
dell’epoca verso
i tavoli «che
ballano», nello
stupore generale
verso i primi
rumori
industriali e le
prime ciminiere,
nel boom della
letteratura
fantastica).
Secondo alcuni
sociologi come
Tiryakian, alla
base del
fenomeno c’è il
tentativo di
secolarizzare il
demoniaco, dopo
che l’uomo
moderno aveva
già proclamato
«la morte di
Dio».
Ovviamente,
l’occultismo
presenta anche
dei punti di
tangenza con
l’esoterismo,
che possiamo
rintracciare
nella credenza
che il Cosmo sia
un reticolo di
corrispondenze,
che la Natura
sia un corpo
vivente, nella
convinzione del
potere superiore
e magico
dell’Immaginazione,
nella tensione
verso la
possibilità
della
trasmutazione.
Tuttavia,
difficilmente si
può distinguere
un corpus
proprio di
dottrine
pertinenti
all’occultismo
moderno.
Infatti, alcuni
dei suoi primi
esponenti come
Eliphas Lévi e
Papus si
distinguono per
l’abuso
dell’erudizione
e il conseguente
utilizzo smodato
del sincretismo,
che purtroppo
trasformano i
loro libri in
una babilonia di
riferimenti e
rimaneggiamenti.
Altri, come
Saint-Yves d’Alveidre,
si dedicarono
alla descrizione
di regni
nascosti in
regioni
lontanissime.
Altri ancora,
come Joséphin
Péladan e Paul
Sédir nutrirono
un forte
interesse per il
«cristianesimo
esoterico», pur
continuando a
caratterizzarsi
piuttosto come
occultisti. Per
contro, Aleister
Crowley si
rifarà ad un
satanismo
connotato da
elementi
orientaleggianti
mutuati dal
Tantrismo
estremo, che
darà forma ad
una magia
sexualis ricolma
di riti
evocativi.
L’attivismo
frenetico con
cui Crowley
passerà di
rituale in
rituale, di
forma in forma,
in un
sincretismo
ridondante e
famelico, segna
il passaggio da
un occultismo
marcatamente
«intellettuale»
– come quello di
Lévi e Papus –
ad uno più
spiccatamente
«sperimentale».
In tutti i casi,
la cifra
distintiva
dell’occultismo
è la sua
contaminazione
con la
modernità.
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE
Enciclopedia
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diretta da M.
Eliade, Jaca
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A. Faivre, Accèss
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ésotériques (XV°
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A. Faivre,
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La table d’emeraude
1999 "Symboles
et Mythes dans
le Mouvements
initiatiques et
ésotériques
(XVII°-XX°
siècles):
Filitiations et
emprunts.
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delle campagne e
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J. Symonds, La
Grande Bestia,
ed. Mediterranee.
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del Nazismo,
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Mediterranee.
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