«L'INNO DELLA
PERLA».
Con la dottrina
simoniana
abbiamo dato un
esempio di
quella che può
essere chiamata
la gnosi
siriaco-egiziana.
Facciamo seguire
un esempio
introduttivo
dell'altro tipo
principale di
speculazione
gnostica, che
per ragioni che
spiegheremo in
seguito
chiameremo
iranica. In
senso stretto il
testo scelto per
una prima
presentazione di
questo tipo non
è una
composizione
sistematica, ma
poetica, la
quale riveste di
una favola, che
apparentemente
mette in azione
attori umani, la
parte centrale
della dottrina
iranica, e
concentrandosi
sulla parte
escatologica del
dramma divino ne
trascura la
prima parte, la
cosmogonica. Si
tratta tuttavia
di un documento
del sentimento e
del pensiero
gnostico così
affascinante
nella sua
vivezza e nella
sua sottile
semplicità, che
non si sarebbe
potuta trovare
un'introduzione
migliore a
questo genere di
gnosi. La parte
più teorica,
cosmogonica,
della dottrina
iranica sarà
presentata in
seguito nel
capitolo
sull'insegnamento
di Mani. Dopo la
sfrontatezza
calcolata di
Simon Mago, la
commovente
tenerezza della
poesia seguente
porterà una nota
di forte
contrasto.
Il cosiddetto
«Inno della
Perla» si trova
negli Atti
apocrifi
dell'apostolo
Tommaso, una
composizione
gnostica
conservata con
rielaborazioni
ortodosse di
poco rilievo: il
testo stesso
dell'Inno ne è
completamente
privo. «Inno
della Perla» è
il titolo dato
dai traduttori
moderni: negli
Atti invece è
chiamato «Canto
dell'apostolo
Giuda Tommaso
nella terra
degli Indiani»
(1). In
considerazione
dell'intenzione
didattica e
della forma
narrativa della
composizione
poetica, «inno»
non è forse del
tutto esatto.
Esiste col
rimanente degli
Atti in una
versione siriaca
ed una greca;
quella siriaca è
quella originale
(o una immediata
discendente
dell'originale,
che era senza
dubbio siriaco).
Nella nostra
traduzione,
basata
specialmente sul
testo siriaco,
trascureremo le
divisioni
metriche e
renderemo il
testo come se
fosse una prosa
narrativa.
a) Il testo.
«Quando ero
bambino e
abitavo nel
regno della casa
di mio Padre e
mi dilettavo
della ricchezza
e dello
splendore di
coloro che mi
avevano
allevato, i miei
genitori mi
mandarono
dall'oriente,
nostra patria,
con le provviste
per il viaggio
(2). Delle
ricchezze della
nostra casa
fecero un carico
per me: esso era
grande, eppure
leggero, in modo
che potessi
portarlo da
solo... (3). Mi
tolsero il
vestito di
gloria che nel
loro amore
avevano fatto
per me, e il
manto di porpora
che era stato
tessuto in modo
che si adattasse
perfettamente
alla mia persona
(4), e fecero un
patto con me e
lo scrissero nel
mio cuore perché
non lo potessi
scordare:
'Quando andrai
in Egitto e ne
riporterai
l'Unica Perla
che giace in
mezzo al mare,
accerchiata dal
serpente
sibilante,
indosserai di
nuovo il tuo
vestito di
gloria e il
manto sopra di
esso, e con tuo
fratello,
prossimo a noi
in dignità, sii
erede nel nostro
regno'.
Lasciai
l'Oriente e
m'avviai alla
discesa,
accompagnato da
due messi reali,
poiché il
cammino era
pericoloso e
difficile ed io
ero troppo
giovane per un
tale viaggio;
oltrepassai i
confini di
Maishan, punto
d'incontro dei
mercanti
dell'Oriente,
giunsi nella
terra di Babel
ed entrai nelle
mura di Sarburg.
Scesi in Egitto
e i miei
compagni mi
lasciarono. Mi
diressi deciso
al serpente e mi
stabilii vicino
alla sua dimora
in attesa che si
riposasse e
dormisse per
potergli
prendere la
Perla. Poiché
ero solo e me ne
stavo in
disparte, ero
forestiero per
gli abitanti
dell'albergo.
Pure vidi là uno
della mia razza,
un giovane
leggiadro e
bello, figlio di
re [lett.: 'di
coloro che sono
unti']. Egli
venne e si unì a
me; io lo
accolsi
familiarmente e
con fiducia e
gli raccontai
della mia
missione. Io
[egli?] lo [me?]
avvertii di
guardarsi dagli
Egiziani e di
evitare il
contatto con gli
impuri. Tuttavia
mi vestii con i
loro abiti,
perché non
sospettassero di
me, che ero
venuto da fuori
per prendere la
Perla, e non
risvegliassero
il serpente
contro di me. Ma
in qualche modo
si accorsero che
non ero uno di
loro e cercarono
di rendersi
graditi a me; mi
mescerono nella
loro astuzia
[una bevanda], e
mi dettero da
mangiare della
loro carne; e io
dimenticai che
ero figlio di re
e servii il loro
re. Io
dimenticai la
Perla per la
quale i miei
genitori mi
avevano mandato.
Per la
pesantezza del
loro cibo caddi
in un sonno
profondo.
I miei genitori
avevano notato
tutto quello che
mi accadeva ed
erano afflitti
per me. Fu
proclamato nel
nostro regno che
tutti dovevano
presentarsi alle
nostre porte. E
i re e i grandi
della Partia e
tutti i nobili
dell'Oriente
formarono un
piano perché io
non fossi
lasciato in
Egitto. E mi
scrissero una
lettera firmata
col nome di
ciascuno dei
grandi.
'Da tuo padre,
il re dei re, e
da tua madre,
signora
dell'Oriente, e
da tuo fratello,
nostro prossimo
di rango, a te
nostro figlio in
Egitto, salute.
Svegliati e
sorgi dal tuo
sonno, e intendi
le parole della
nostra lettera.
Ricordati che
sei figlio di
re: guarda chi
hai servito in
schiavitù. Poni
mente alla Perla
per la quale sei
partito per
l'Egitto.
Ricordati del
vestito di
gloria, richiama
il manto
splendido, per
indossarli e
adornarti con
essi, e il tuo
nome possa
essere letto nel
libro degli eroi
e tu divenga con
tuo fratello,
nostro delegato,
erede nel nostro
regno'.
Come un
messaggero era
la lettera che
il Re aveva
sigillato con la
mano destra
contro i
malvagi, i figli
di Babel e i
demoni ribelli
di Sarburg. Si
levò in forma di
aquila, il re di
tutti gli alati,
e volò finché
discese vicino a
me e divenne
interamente
parola. Al suono
della sua voce
mi svegliai e mi
destai dal
sonno; la presi,
la baciai, ruppi
il sigillo e
lessi. Conformi
a quanto era
stato scritto
nel mio cuore si
potevano leggere
le parole della
mia lettera. Mi
ricordai che ero
figlio di re e
che la mia
anima, nata
libera, aspirava
ai suoi simili.
Mi ricordai
della Perla per
la quale ero
stato mandato in
Egitto e
cominciai ad
incantare il
terribile
serpente
sibilante. Lo
indussi al sonno
invocando su di
lui il nome di
mio Padre, il
nome del nostro
prossimo in
rango e quello
di mia madre, la
regina
dell'Oriente.
Presi la Perla e
mi volsi per
tornare a casa
da mio Padre. Mi
spogliai del
loro vestito
sordido e impuro
e lo abbandonai
nella loro
terra; diressi
il mio cammino
onde giungere
alla luce della
nostra patria,
l'Oriente.
Trovai la
lettera che mi
aveva ridestato
davanti a me sul
mio cammino; e
come mi aveva
svegliato con la
sua voce, ora mi
guidava con la
sua luce che
brillava dinanzi
a me; e con la
voce
incoraggiava il
mio timore e col
suo amore mi
traeva. E andai
avanti... (5) I
miei genitori...
mandarono
incontro a me a
mezzo dei loro
tesorieri, a cui
erano stati
affidati, il
vestito di
gloria che avevo
tolto e il manto
che doveva
coprirlo. Avevo
dimenticato il
suo splendore,
avendolo
lasciato da
bambino in casa
di mio Padre.
Mentre ora
osservavo il
vestito, mi
sembrò che
diventasse
improvvisamente
uno
specchio-immagine
di me stesso: mi
vidi tutto
intero in esso
ed esso tutto
vidi in me,
cosicché eravamo
due separati,
eppure ancora
uno per
l'uguaglianza
della forma...
(6) E l'immagine
del Re dei Re
era raffigurata
dappertutto su
di esso... E
vidi anche
vibrare
dappertutto su
di esso i
movimenti della
gnosi. Vidi che
stava per
parlare e
percepii il
suono delle
canzoni che
mormorava lungo
la discesa:
'Sono io che ho
agito nelle
azioni di colui
per il quale
sono stato
allevato nella
casa di mio
Padre, ed ho
sentito in me
stesso che la
mia statura
cresceva in
corrispondenza
delle sue
fatiche'. E con
i suoi movimenti
regali si
offerse tutto a
me e dalle mani
di quelli che lo
portavano si
affrettò perché
potessi
prenderlo; e
anch'io ero
mosso dall'amore
a correre verso
di esso per
riceverlo. E mi
protesi verso di
lui, lo presi, e
mi avvolsi nella
bellezza dei
suoi colori. E
gettai il manto
regale intorno a
tutta la mia
persona. Così
rivestito, salii
alla porta della
salvezza e
dell'adorazione.
Inchinai la
testa e adorai
lo splendore di
mio Padre che me
lo aveva
mandato, i cui
comandi avevo
adempiuto perché
anch'egli aveva
mantenuto ciò
che aveva
promesso... Mi
accolse
gioiosamente ed
ero con lui nel
suo regno, e
tutti i suoi
servitori lo
lodarono con
voce di organo,
cantando che
egli aveva
promesso che
avrei raggiunto
la corte del Re
dei Re e avendo
portato la mia
Perla sarei
apparso insieme
a lui».
b) Commento.
L'incanto
immediato di
questo racconto
è tale che
commuove il
lettore ancor
prima di
qualsiasi
analisi di
significato. Il
mistero del
messaggio
trasmesso parla
di per sé, in
modo tale che ci
si potrebbe
quasi astenere
da
un'interpretazione
particolareggiata.
Forse in nessun
altro testo
l'esperienza
gnostica
fondamentale è
espressa in
termini così
commoventi e
così semplici.
Tuttavia il
racconto è
simbolico
nell'insieme ed
impiega simboli
nelle varie
parti, perciò
sia il
simbolismo
globale sia gli
elementi che lo
compongono
richiedono di
essere spiegati.
Inizieremo da
questi ultimi.
- Serpente,
mare, Egitto.
Se diamo per
scontato che la
casa del Padre
nell'Oriente è
la dimora
celeste e
spostiamo la
questione al
significato
della Perla,
sono da spiegare
i simboli
dell'Egitto, del
serpente e del
mare.
Incontriamo qui
il serpente per
la seconda volta
nel mondo
gnostico di
immagini (v.
sopra, cap. 2,
o, p. 109 in
nero); ma a
differenza del
significato che
aveva nelle
sètte degli
Ofiti, per le
quali esso era
un simbolo
pneumatico,
assume qui il
significato di
reggitore e
principio
malvagio di
questo mondo,
nella forma del
dragone del caos
originario,
circondante la
terra. La
"Pistis Sophia"
(cap. 126, p.
207, Schmidt)
dice: «La
tenebra esterna
è un immenso
dragone la cui
coda è nella sua
bocca». Gli Atti
stessi, in un
passo non
compreso
nell'inno,
offrono una
descrizione più
particolareggiata
di questa figura
per bocca di uno
dei suoi
figli-dragoni:
«Sono progenie
del
serpente-natura
e figlio di un
corruttore. Sono
figlio di colui
che... siede sul
trono e ha il
dominio su tutta
la creazione al
di sotto dei
cieli,... che
circonda le
sfere,... che è
all'esterno
(intorno)
dell'oceano, la
cui coda sta
nella sua bocca»
(par. 32).
Si trovano molti
parallelismi,
nella
letteratura
gnostica, che si
riferiscono a
questo secondo
significato del
serpente.
Origene nella
sua opera
"Contra Celsum"
(VI, 25, 35)
descrive il
cosiddetto
«diagramma degli
Ofiti», dove i
sette cerchi di
Arconti sono
posti in un
cerchio più
ampio che è
chiamato il
Leviatan, il
grande dragone
(non identico,
naturalmente, al
«serpente» del
sistema), e
chiamato anche
"psyche" (qui
«anima del
mondo»). Nel
sistema mandeo
questo Leviatan
è chiamato Ur ed
è il padre dei
Sette.
L'archetipo
mitologico di
tale figura è la
babilonese
Ti'amat, il
mostro del caos
ucciso da Marduk
nella storia
della creazione.
Il parallelo
gnostico più
vicino al nostro
racconto va
ricercato nel
testo ebraico
apocrifo, gli
Atti di Ciriaco
e Giulitta
(confronta
REITZENSTEIN,
"Das iranische
Erlösungsmysterium",
p. 77), dove la
preghiera di
Ciriaco
riferisce, anche
in prima
persona, come
l'eroe mandato
da sua Madre
nella terra
straniera, la
«città delle
tenebre», dopo
lungo
vagabondare e
dopo esser
passato
attraverso le
acque
dell'abisso,
incontra il
dragone, il «re
dei vermi della
terra, la cui
coda è nella sua
bocca. Questo è
il serpente che
ha fuorviato gli
angeli per mezzo
delle passioni,
allontanandoli
dall'alto;
questo è il
serpente che ha
condotto fuori
strada il primo
Adamo e lo ha
scacciato dal
Paradiso...»
(7). Anche qui
una mistica
lettera lo salva
dal serpente e
gli fa adempiere
la sua missione.
Il "mare" o le
"acque" sono un
simbolo gnostico
fisso per il
mondo della
materia o delle
tenebre nel
quale è immerso
il divino. Così
i Naasseni
interpretavano
nel modo
seguente il
Salmo 29, 3 e
10, sul Dio che
abita gli abissi
e la cui voce
echeggia sopra
le acque: «Le
molte acque
rappresentano il
mondo multiforme
della
generazione
mortale nel
quale è
affondato il dio
uomo e dalla cui
profondità egli
invoca il Dio
supremo, l'Uomo
Primordiale, il
suo modello
originale non
caduto» (Ippol.
V, 8, 15).
Abbiamo citato
(cap. 3, p. 122
in nero) la
divisione data
da Simone
dell'Unico in
colui che «sta
sopra, nella
Potenza
increata» e in
colui che
«stette sotto
nella corrente
delle acque,
generato
nell'immagine».
I Perati
interpretavano
il Mar Rosso,
che doveva
essere
attraversato
andando o
tornando
dall'Egitto,
come «l'acqua
della
corruzione» e lo
identificavano
con Kronos, cioè
il «tempo» e il
««divenire»
(ibid. 16, 5).
Nel testo mandeo
"Ginza di
Sinistra" III
leggiamo: «Io
sono un grande
Mana... che
abitava nel
mare... finché
ali mi furono
allestite ed io
mi innalzai al
luogo della
luce». Il quarto
libro apocrifo
di Esdra,
un'apocalisse,
riporta nel cap.
13 una visione
impressionante
dell'Uomo che
vola in alto
«dalle
profondità del
mare». In questo
contesto va pure
ricordato il
simbolismo del
pesce nel
cristianesimo
primitivo.
L'Egitto come
simbolo del
mondo materiale
è molto comune
nello
gnosticismo (e
fuori di esso).
La storia
biblica della
schiavitù e
della
liberazione
d'Israele si
prestava
magnificamente a
quel tipo
d'interpretazione
spirituale che
piaceva agli
Gnostici. Ma la
storia biblica
non è l'unico
riferimento che
vedeva l'Egitto
nella sua
funzione
allegorica. Fin
dai tempi
antichi l'Egitto
era stato
considerato come
la sede del
culto dei morti
e perciò il
regno della
Morte; questo ed
altri aspetti
della religione
egiziana, quali
i suoi dèi con
la testa di
bestia e la
grande parte che
vi aveva la
magia,
ispirarono agli
Ebrei e più
tardi ai
Persiani un
particolare
orrore e li
portarono a
considerare
l'«Egitto» come
la
personificazione
di un principio
demoniaco. Gli
Gnostici allora
si valsero di
questa
concezione per
fare dell'Egitto
un simbolo di
«questo mondo»,
cioè il mondo
della materia,
dell'ignoranza e
di una religione
perversa: «Tutti
gli ignoranti
[ossia coloro
che sono privi
di gnosi] sono
'Egiziani'»,
afferma un detto
peratico citato
da Ippolito (V,
16, 5).
Abbiamo notato
precedentemente
che in generale
i simboli del
mondo possono
servire come
simboli del
corpo e
viceversa; ciò è
vero anche per i
tre che abbiamo
appena
esaminato:
«mare» e
«dragone»
talvolta
indicano negli
scritti mandei
il corpo, e
circa «l'Egitto»
i Perati, per i
quali ugualmente
esso significa
il «mondo»,
dicevano anche
che «il corpo è
un piccolo
Egitto» (Ippol.
V, 16,5;
parimente i
Naasseni, ibid.
7, 41).
- Il vestito
impuro.
Che lo straniero
indossi le vesti
degli Egiziani
appartiene al
simbolismo
generale della
«veste» che
abbiamo
esaminato nel
cap. 2, d (p. 76
in nero). La
ragione addotta
qui, di rimanere
sconosciuto agli
Egiziani,
collega quel
simbolismo con
un tema che si
ritrova
dappertutto
nello
gnosticismo in
numerose
varianti: il
salvatore viene
nel mondo
sconosciuto ai
suoi governanti,
assumendo di
volta in volta
le loro stesse
forme. Abbiamo
trovato tale
dottrina in
Simon Mago,
collegata al
passaggio
attraverso le
sfere. In un
testo mandeo
leggiamo: «Mi
sono nascosto ai
Sette, mi sono
imposto di
assumere una
forma corporea»
(G 112). Di
fatto questo
tema unisce due
idee differenti,
quella
dell'inganno per
il quale gli
Arconti sono
superati, e
quella della
necessità
sacrificale
imposta al
salvatore di
«rivestirsi
dell'afflizione
dei mondi» per
esautorare i
poteri del
mondo, cioè come
parte del
meccanismo
stesso della
salvezza. E se
analizziamo da
vicino il nostro
testo, vediamo
che il Figlio
del Re in realtà
non ha altra
scelta che
indossare le
vesti terrestri,
avendo lasciato
le sue proprie
nel regno
superiore. E'
anche evidente,
e nonostante la
sua
paradossalità fa
parte della
logica del
processo stesso,
che la
familiarità con
gli «Egiziani»
resa possibile
da questo
scambio di vesti
elude in certa
misura il
proposito di
sorveglianza sul
messaggero
facendolo
partecipe del
loro mangiare e
bere. Gli
Egiziani,
sebbene non
riconoscano la
sua origine o la
sua missione
(nel qual caso
avrebbero
eccitato contro
di lui il
dragone),
intuiscono la
differenza che
esiste tra lui e
loro stessi e
sono ansiosi di
renderlo uno di
loro. Essi
riescono proprio
perché il suo
nascondimento è
riuscito: ossia
il suo aver
assunto un
corpo. Perciò lo
stratagemma di
nascondersi ai
poteri cosmici
diventa per
necessità causa
di alienazione
di sé e mette a
repentaglio
l'intera
missione. Ciò fa
parte della
situazione
divina: la
condizione
necessaria per
il successo del
salvatore
comporta al
tempo stesso il
più grande
pericolo di
fallimento.
- La lettera.
Le tribolazioni
del messaggero e
il suo
temporaneo
soccombere sono
descritti nelle
metafore di
sonno e
ubriachezza
delle quali
abbiamo parlato
al cap. 2 (v.
«Torpore, sonno,
ebbrezza»). Il
suo ritorno alla
coscienza per
opera della voce
della lettera fa
parte del
linguaggio
figurato
collegato alla
«chiamata» (v.
«La 'chiamata
dal di fuori'»,
cap. 2, k). La
«lettera» in
particolare è il
tema dell'intera
Ode
ventitreesima,
una delle Odi
apocrife di
Salomone, della
quale riportiamo
qui una stanza.
«Il suo piano di
salvezza è
divenuto simile
ad una lettera,
la sua volontà è
discesa
dall'alto
e fu mandata
come una freccia
che è scoccata
con forza
dall'arco.
Molte mani si
tesero verso la
lettera
per afferrarla,
per prenderla e
leggerla;
ma essa sfuggì
dalle loro dita.
Essi ne ebbero
timore e del
sigillo su di
essa,
non avendo il
potere di
rompere il
sigillo,
perché la forza
del sigillo era
più forte di
loro» (5-9).
E' da osservare
che i Mandei,
invertendo la
direzione, hanno
chiamato
l'"anima" che
parte dal corpo
«una lettera ben
sigillata
inviata fuori
del mondo il cui
segreto nessuno
conosceva...
l'anima vola e
procede per la
sua strada...»
("Mandäische
Liturgien", p.
111). Ma più
frequentemente
la lettera è la
personificazione
della chiamata
che viene "nel"
mondo e
raggiunge
l'anima
addormentata
quaggiù, e ciò è
causa di un
curioso gioco di
contrappunto
semantico nel
contesto del
nostro racconto.
Nel simbolismo
gnostico colui
che chiama è il
messaggero, e
colei che è
chiamata è
l'anima
addormentata.
Qui tuttavia il
dormiente
chiamato è egli
stesso il
messaggero e la
lettera perciò
ha una doppia
funzione, come
il messaggero
del resto fa
anche la parte
del tesoro
divino che egli
è venuto a
ricuperare in
questo mondo. Se
a ciò
aggiungiamo lo
sdoppiamento
della figura del
messaggero nel
suo vestito
celestiale, il
suo
specchio-immagine
col quale è
riunito al
compimento della
sua missione,
comprendiamo
qualche cosa
della logica di
quella corrente
di simbolismo
escatologico che
abbiamo
racchiuso
nell'espressione
«il salvatore
salvato».
- La vittoria
sul serpente e
l'ascesa.
La maniera in
cui il
messaggero vince
il serpente e
gli porta via il
tesoro è appena
narrata nel
nostro testo.
Esso afferma
semplicemente
che il serpente
viene
addormentato,
ossia prova
quello che il
messaggero aveva
provato prima.
Ciò che qui è
attribuito per
accenni ad un
incantesimo, in
altre fonti è
spiegato col
fatto che la
Luce è un veleno
per le Tenebre
quanto le
Tenebre sono
veleno per la
Luce. Così nella
cosmogonia
manichea l'Uomo
Primordiale,
vedendo la sua
imminente
sconfitta
nell'incontro
con le forze
delle Tenebre,
«dà se stesso e
i suoi cinque
figli come
nutrimento ai
cinque figli
delle Tenebre,
come un uomo che
ha un nemico
mescola un
veleno mortale
in una focaccia
e gliela dà»
(secondo Teodoro
bar Konai). Con
questo mezzo
sacrificale il
furore delle
Tenebre è di
fatto «placato».
E' evidente la
connessione del
motivo gnostico
del salvatore
con l'antico
mito naturistico
del sole: il
tema dell'eroe
che si lascia
divorare dal
mostro e lo
vince
dall'interno è
largamente
diffuso nella
mitologia
ovunque. Se ne
può notare la
trasposizione
dalla religione
della natura al
simbolismo della
salvezza nel
mito della
vittoria di
Cristo
sull'inferno,
che in realtà
appartiene ad
una dottrina
dualistica e
difficilmente si
può dire di
origine
cristiana. Nelle
"Odi di
Salomone"
leggiamo:
«L'inferno mi
guardò e
s'avvalì: la
Morte mi vomitò
e molti con me:
fiele e veleno
io fui per lui,
e discesi con
lui fino alle
sue estreme
profondità: i
suoi piedi e la
sua testa
divennero senza
forza...» (Ode
XLII, 11-13).
I Mandei hanno
conservato più
alla lettera la
forma
originaria, non
spiritualizzata,
del mito. Nel
loro trattato
principale sulla
discesa del
salvatore nei
mondi inferi,
Hibil, il
dio-salvatore,
così descrive la
sua avventura:
«Karkûm, la
grande montagna
di carne, mi
disse: 'Vattene,
o ti divorerò'.
Quando mi disse
questo, ero in
una custodia di
spade, sciabole,
lance, coltelli
e lame, e gli
dissi:
'Divorami'.
Allora... mi
ingoiò per metà:
quindi mi
vomitò... Egli
vomitò veleno
dalla sua bocca,
perché i suoi
visceri, il
fegato e i reni
erano stati
fatti a pezzi»
(G 157).
L'autore
dell'Inno
evidentemente
non aveva
interesse per
simili crudezze.
L'ascesa inizia
con l'abbandono
delle vesti
impure (8) ed è
guidata e
incitata dalla
lettera, che è
insieme luce e
voce. Essa ha
perciò la
funzione
attribuita alla
Verità in un
passo parallelo
tratto dalle
"Odi di
Salomone":
«Sono salito
alla luce come
portato sul
carro della
Verità,
la verità mi ha
guidato e
condotto.
Essa mi ha
portato al di
sopra di
crepacci e
abissi
e mi ha
trasportato in
alto al di là di
gole e vallate.
E' divenuta per
me un porto di
salvezza
e mi ha messo
nelle braccia
della vita
eterna»
(Ode XXXVIII,
1-3).
Nel nostro
racconto
tuttavia la
guida della
lettera finisce
a quello che
possiamo
chiamare il
culmine
dell'ascesa,
l'incontro del
figlio che
ritorna con la
sua veste.
Simbolo
affascinante,
che richiede uno
speciale
commento.
- La veste
celeste;
l'immagine.
Nella liturgia
mandea dei Morti
leggiamo questa
formula tipica:
«Vado incontro
alla mia
immagine e la
mia immagine
viene ad
incontrarmi: mi
accarezza e mi
abbraccia come
se io ritornassi
dalla prigionia»
(per esempio, in
G 559). La
concezione
deriva da una
dottrina
dell'Avesta (9)
secondo la quale
dopo la morte di
un credente «la
sua coscienza
religiosa appare
alla sua anima
sotto forma di
una bella
fanciulla» e
risponde alla
domanda chi essa
sia:
«O giovane di
buoni pensieri,
buone parole,
buone azioni,
buona coscienza,
io non sono
altro che la tua
propria
coscienza
personale... Tu
mi hai amato...
in questa
sublimità,
bontà,
bellezza...
nella quale ora
ti apparisco»
("Hadokht Nask"
2, 9 s.s.).
La dottrina fu
ripresa dai
Manichei:
confronta il F
100 dei
frammenti di
Turfan, dove è
detto che dopo
la morte viene
incontro
all'anima la
veste, la corona
(e altri
emblemi) e «la
vergine simile
all'anima del
fedele». Nella
genealogia
copto-manichea
degli dèi
troviamo tra le
divine
emanazioni la
«figura di luce
che viene
incontro al
morente»
chiamata anche
«l'angelo con la
veste di luce».
Nel racconto che
abbiamo
riportato la
veste diventa
questa figura
stessa e agisce
come una
persona. Essa
simbolizza l'io
celeste o eterno
della persona,
l'idea
originaria, una
specie di doppio
o "alter ego"
preservato nel
mondo superiore,
mentre essa si
affatica
quaggiù: come
dice un testo
mandeo, «la sua
immagine è
mantenuta sana e
salva al suo
posto» (G 90).
Cresce con le
sue azioni e la
sua forma è
perfezionata
dalle fatiche
(10). La sua
pienezza segna
l'adempimento
del suo compito
e quindi la sua
liberazione
dall'esilio del
mondo. Perciò
l'incontro con
questo aspetto
sdoppiato
dell'io, il
riconoscimento
di esso come
propria immagine
e la riunione
con esso
significano il
vero momento
della salvezza.
Tale concezione,
applicata come
in questo caso e
in altri ancora
al messaggero o
salvatore,
conduce
all'interessante
idea teologica
di un fratello
gemello o
originale eterno
del salvatore
che rimane nel
mondo superiore
durante la sua
missione
terrena.
Duplicati di
questo genere
abbondano nella
speculazione
gnostica in
rapporto alle
figure divine in
genere, ovunque
la loro funzione
richieda un
distacco dal
regno divino e
un mescolarsi
agli eventi del
basso mondo.
Per quel che
riguarda
l'interpretazione
del nostro
testo, le
precedenti
considerazioni
suggeriscono con
evidenza che il
Secondo
(«prossimo in
dignità»), del
quale è detto
ripetutamente
che sta con i
suoi genitori e
col quale il
Figlio del Re
sarà erede nella
casa del Padre,
è un altro di
tali duplicati
e, di fatto, una
sola cosa con la
veste: egli non
è più menzionato
proprio quando
ci si
aspetterebbe di
vederlo
menzionato,
ossia dopo il
ritorno
trionfante dello
straniero. Nella
riunione di
quest'ultimo con
la sua veste, la
figura del
fratello sembra
essere stata
riassorbita
nell'unità.
- L'io
trascendentale.
Come abbiamo
visto, il
«doppio» del
salvatore non è
che una
rappresentazione
teologica
particolare di
un'idea
riguardante la
dottrina
dell'uomo in
genere e
contrassegnata
dal concetto
dell'io. In tale
concetto
possiamo
discernere ciò
che forse è il
contributo più
profondo della
religione
persiana allo
gnosticismo e
alla storia
delle religioni
in genere. La
Parola Avesta è
"daena", per la
quale
l'orientalista
Bartholomae
annota i
seguenti
significati: «1.
religione, 2.
essenza interna,
io spirituale,
individualità;
spesso quasi
intraducibile»
(11).
Nei frammenti
manichei del
Turfan è usata
un'altra parola,
"grev", che può
tradursi sia con
«sé» che con
«ego». Indica la
persona
metafisica, il
vero soggetto
trascendente
della salvezza,
che non è
identico
all'anima
empirica. Nel
trattato
manicheo cinese
tradotto da
Pelliot, è anche
chiamata «la
natura
luminosa», «la
nostra
originaria
natura
luminosa», o
«natura
interiore» che
richiama «l'uomo
interiore» di
san Paolo; gli
inni manichei la
chiamano il «sé
vivente» o il
«sé luminoso».
Il «Mana» mandeo
esprime la
stessa idea e
rende
particolarmente
chiara
l'identità tra
questo principio
interiore e la
divinità
suprema; infatti
«Mana» è il nome
della Potenza
transmondana di
Luce, la prima
divinità, e
nello stesso
tempo è quello
del centro
non-mondano,
trascendente
dell'ego
individuale
(12). La stessa
identità è
espressa
dall'uso
naasseno del
nome «Uomo» o
«Adamo» per
indicare il Dio
supremo e il suo
corrispondente
caduto nel
mondo.
Nel Nuovo
Testamento,
specialmente in
san Paolo,
questo principio
trascendente
dell'anima umana
è chiamato
«spirito»
("pneuma"), «lo
spirito in noi»,
«l'uomo
interiore», e in
senso
escatologico
anche «l'uomo
nuovo». E'
significativo
che Paolo, il
quale scriveva
in greco e non
ignorava
certamente la
terminologia
greca, non usi
mai in questo
senso il termine
"psyche", che
pure fin dal
tempo degli
Orfici e di
Platone aveva
significato il
principio divino
in noi. Al
contrario egli
"oppone", come
fecero gli
scrittori
gnostici greci
dopo di lui,
«anima» e
«spirito», «uomo
psichico» (13) e
«uomo
pneumatico».
Evidentemente il
significato
greco di
"psyche",
nonostante tutta
la sua dignità,
non era
sufficiente ad
esprimere la
nuova concezione
di un principio
che trascende
ogni
associazione
umana e cosmica,
inerente al
concetto greco.
Il termine
"pneuma" è usato
in genere nello
gnosticismo
greco come
equivalente
dell'espressione
«sé» spirituale,
per il quale il
greco, a
differenza di
alcune lingue
orientali, manca
di un termine
proprio. In tale
funzione lo
troviamo
impiegato nella
cosiddetta
Liturgia di
Mitra con
aggettivi quali
«santo» e
«immortale», in
contrasto a
"psyche" o
«potere umano
psichico».
L'alchimista
Zosimo usa «il
nostro "pneuma"
luminoso»,
«l'uomo
interiore
pneumatico»,
eccetera. In
alcuni gnostici
cristiani è
anche chiamato
«scintilla» e
«seme di luce».
E' tra questo
principio
nascosto della
persona
terrestre e il
suo originale
celeste che ha
luogo il
riconoscimento e
la definitiva
riunione. Perciò
nel nostro
racconto la
funzione della
veste come forma
celestiale
dell'io
invisibile,
perché
temporaneamente
oscurato, è una
delle
rappresentazioni
simboliche di
una dottrina
largamente
diffusa ed
essenziale allo
gnosticismo. Non
è esagerato
affermare che la
scoperta
nell'uomo di
questo principio
interiore
trascendente e
del supremo
interesse
riguardo del suo
destino è il
vero centro
della religione
gnostica.
- La Perla.
Il che ci
riporta alla
nostra ultima
domanda: Qual è
il significato
della Perla? La
risposta a tale
questione
determina anche
il significato
della storia nel
suo insieme. E'
facile
rispondere alla
questione, come
particolare
mitografico. Nel
glossario del
simbolismo
gnostico «perla»
è una delle
metafore fisse
per «anima» nel
senso
soprannaturale.
Il termine
perciò lo si
poteva includere
nella lista dei
termini
equivalenti, di
cui abbiamo
trattato
nell'elenco
precedente.
Tuttavia è più
un nome segreto
che un termine
chiaro di
quell'enumerazione;
e inoltre sta in
una categoria a
sé perché
sottolinea un
aspetto
particolare, o
condizione
metafisica, di
quel principio
trascendente.
Mentre quasi
tutte le altre
espressioni
possono
ugualmente
applicarsi alla
divinità integra
e alla sua parte
caduta, la
«perla» indica
in modo speciale
quest'ultima nel
destino che l'ha
colpita. La
«perla» è
essenzialmente
la perla
«perduta» e che
deve essere
ricuperata. Il
fatto che la
perla è
racchiusa in un
guscio animale
ed è nascosta
nel profondo può
essere stato tra
le associazioni
di idee che in
origine
suggerirono
l'immagine.
I Naasseni,
interpretando a
loro modo
"Matteo" 7, 6,
chiamarono
«discernimenti,
intelligenze e
uomini» (ossia
gli elementi
«viventi» del
cosmo fisico)
«le perle di
quell'Uno senza
Forma costretto
nella forma
[cioè il corpo]»
(Hippol.,
"Refut." V, 8,
32). Quando ci
si rivolge
all'anima come
«perla» (come
avviene in un
testo del
Turfan), è per
ricordarle la
sua origine, ma
anche per
accentuare il
suo pregio agli
esseri
celestiali che
la ricercano, e
per mettere in
contrasto il suo
valore con
l'indegnità di
quello che ora
la circonda, il
suo splendore
con le tenebre
nelle quali è
immersa.
L'appellativo è
usato dallo
«Spirito» come
apertura del suo
messaggio di
salvezza. Nel
testo a cui
abbiamo
accennato, lo
Spirito continua
chiamando
l'anima un «re»,
a causa del
quale è stata
mossa guerra in
cielo e in terra
e per il quale
sono stati
mandati dei
messaggeri.
«E per causa tua
gli dèi sono
usciti, sono
apparsi e hanno
distrutto la
Morte e ucciso
le Tenebre... E
sono venuto io
che libererò dal
male... E aprirò
dinanzi a te le
parole in
ciascun cielo...
e ti mostrerò il
Padre, il Re in
eterno, e ti
guiderò dinanzi
a lui in una
veste pura»
(14).
Ora, se questo è
il messaggio
rivolto alla
Perla, il
lettore,
ricordando la
narrazione degli
"Atti di
Tommaso", sarà
colpito dal
fatto che questo
è anche il
messaggio
indirizzato a
colui che partì
per ricuperare
la Perla: anche
lui lo si
rassicura che
gli «dèi», i
grandi nel regno
di suo Padre, si
preoccupano
della sua
liberazione,
anche a lui
viene ricordata
la sua origine
regale, e anche
lui è guidato in
alto dalla
«lettera», cioè
lo Spirito o la
Verità; infine
anche lui è
condotto dinanzi
al Padre con
vesti pure. In
altre parole, il
destino del
messaggero ha
tirato a sé
tutte le
caratteristiche
che potrebbero
adeguatamente
descrivere il
destino della
Perla, mentre
nell'inno la
Perla stessa
rimane un puro
oggetto e come
tale non è punto
descritta. Qui
essa è talmente
solo simbolo di
un compito dalla
cui esecuzione
dipende il
destino stesso
del messaggero,
che essa è quasi
del tutto
dimenticata
nella storia del
suo ritorno, e
della sua
consegna al Re
si fa appena
cenno. Perciò,
se il nostro
inno è talvolta
chiamato «L'Inno
dell'Anima»,
sembra che il
contenuto
giustifichi tale
designazione
solo nella
figura del
Principe:
qualunque cosa
abbia da dire
circa la
condizione e il
destino
dell'anima, lo
dice per mezzo
della "sua"
esperienza. Il
che ha portato
alcuni
interpreti a
ritenere che la
Perla stia qui
semplicemente
per il «sé» o la
«vita buona» che
l'inviato deve
trovare nel suo
viaggio terreno,
essendo tale
viaggio una
prova alla quale
egli è
sottoposto per
far prova di sé:
il che significa
che egli stesso,
e non la Perla,
rappresenta
«l'anima» in
genere, e che il
viaggio non è
stato intrapreso
a causa della
Perla, ma per se
stesso. In
questo caso, la
Perla, oggetto
della ricerca,
non avrebbe una
posizione
propria,
indipendentemente
dalla ricerca:
sarebbe
piuttosto
un'espressione
di quest'ultima,
che può pertanto
essere designata
come
«autointegrazione».
Per quanto tale
interpretazione
sembri essere
convalidata dal
simbolismo del
vestito celeste
che cresce con
le azioni del
viaggiatore,
eccetera, il
significato
allegorico della
Perla è troppo
saldamente
stabilito nel
mito gnostico
(15) per poter
essere dissolto
in una funzione
puramente
morale; e come
indubbiamente le
esperienze del
messaggero
possono essere
sostituite da
quelle della
Perla, se essa
sta a
rappresentare
l'anima,
altrettanto
indubbiamente il
recupero della
Perla è la
principale
preoccupazione
degli Esseri
celesti, che
suggeriscono la
missione del
Figlio con i
pericoli
personali,
altrimenti non
necessari. La
Perla è
un'entità nel
suo pieno
diritto; essa
cadde in potere
delle Tenebre
prima dell'invio
del Principe e
per essa egli è
pronto ad
assumersi il
peso della
discesa e
dell'esilio, e
con ciò a
riprodurre
inevitabilmente
alcune
caratteristiche
del destino
della «perla».
In realtà, il
problema degli
interpreti,
ossia
l'intercambiabilità
del soggetto e
dell'oggetto
della missione,
del salvatore e
dell'anima, del
Principe e della
Perla, è la
chiave del vero
significato
della
composizione e
dell'escatologia
gnostica in
generale.
Possiamo
ritenere con
certezza che il
Figlio del Re è
il Salvatore,
una figura
divina ben
precisa, e non
soltanto la
personificazione
dell'anima umana
in generale.
Tuttavia questa
posizione
specifica non
gli impedisce di
soffrire nella
propria persona
il destino umano
in tutta la sua
pienezza, fino
al punto che
egli stesso, il
salvatore in
persona, deve
essere salvato.
E invero questa
è la condizione
imprescindibile
dalla sua
funzione
salvifica.
Poiché le
particelle della
divinità
disperse nelle
tenebre possono
essere
recuperate
soltanto
nell'abisso in
cui sono state
inghiottite; e
il potere che le
trattiene,
quello del
mondo, può
essere vinto
soltanto
dall'interno.
Ciò significa
che il
dio-salvatore
deve rendersi
simile alle
forme
dell'esistenza
cosmica e quindi
assoggettarsi
alle sue
condizioni. Il
lettore
cristiano non
deve confondere
questa necessità
con
l'interpretazione
ortodossa della
passione di
Cristo. Poiché
la concezione
gnostica della
salvezza non ha
nulla a che fare
con la
remissione del
peccato («il
peccato» stesso
non ha senso
nella dottrina
gnostica, la
quale mette al
suo posto
«l'ignoranza»),
non vi è nella
discesa del
salvatore niente
della sofferenza
vicaria,
dell'espiazione
come condizione
del perdono
divino e, con la
sola eccezione
di Marcione,
nulla neppure di
un riscatto
mediante il
quale le anime
prigioniere
possano essere
liberate.
Piuttosto l'idea
è quella o di
una necessità
tecnica imposta
dalle condizioni
della missione,
cioè la natura
del sistema
lontano dal
regno divino nel
quale il
messaggero deve
penetrare e le
cui leggi egli
non può
infrangere per
se stesso, o
quella di
un'astuzia
mediante la
quale gli
Arconti debbano
essere
ingannati. In
quest'ultima
interpretazione,
la sofferenza o
la temporanea
sconfitta del
salvatore può
non essere
affatto reale,
ma solo
apparente e
parte
dell'inganno
(16). Non è
questo
naturalmente il
caso del nostro
inno, in cui la
condizione dello
straniero è del
tutto reale.
Tuttavia anche
qui le
sofferenze del
salvatore sono
una conseguenza
degli
inevitabili
pericoli della
sua missione e
non parte del
suo significato
reale. In altre
parole, esse
mettono a
repentaglio il
successo della
sua missione e
sono superate in
modo trionfale,
mentre nel
contesto
cristiano le
sofferenze sono
il vero e
proprio "mezzo"
e "maniera"
dell'adempimento
della missione.
Tenendo ben
presente questa
fondamentale
differenza,
possiamo pur
dire che secondo
il nostro inno
nella discesa
del salvatore vi
è un elemento
sacrificale, in
quanto egli
accetta, per
amore della
Perla, di
sobbarcarsi a un
destino di
esilio e di
ripetere nella
sua persona la
storia di quella
che egli è
venuto a
redimere:
l'Anima.
Se inoltre
abbiamo ragione
di vedere nel
Figlio del Re
certi aspetti
dell'Uomo
Primordiale
della dottrina
manichea, egli
ripete pure il
destino di
quella divinità
pre-cosmica
nella quale ha
avuto origine
l'attuale
condizione
dell'Anima, cioè
della Perla.
Invero, come
vedremo quando
giungeremo ad
esaminare la
cosmogonia
manichea, tutte
queste fasi
successive e
analoghe del
dramma del
mondo,
nonostante il
loro significato
cosmico,
simbolizzano
pure i patimenti
e i trionfi
dell'anima
umana. In
particolare il
riferimento
all'Uomo
Primordiale ci
fornisce un
anello di
congiunzione
definitiva nella
soluzione del
nostro enigma.
Non per nulla
una divinità
eterna
pre-cosmica (e
mediatamente
cosmogonica)
porta il nome
«Uomo»: le anime
disperse nel
mondo sono la
sua «Armatura di
Luce», parte
della sua
sostanza
originaria che
ha ceduto alle
Tenebre nel
combattimento
primordiale (la
«conseguente
corruzione»
dell'allegoria
citata, nota
15), cosicché
egli è in realtà
presente in ogni
anima umana,
esiliata,
prigioniera,
stordita; e se
il Principe come
sua ultima
raffigurazione
viene a
recuperare
questi elementi
perduti, egli in
un certo senso
realmente cerca
ciò che è suo, e
la sua opera è
proprio quella
di
reintegrazione
del sé divino,
anzi del suo
proprio sé, ma
non nel senso
spettante ad una
persona
individuale. Se
quindi c'è
un'identità
metafisica,
sebbene non
numerica, tra il
messaggero e la
Perla, ognuno
che ascolti il
racconto può
legittimamente,
senza confusione
di identità
personali,
riconoscere
nelle avventure
del messaggero
la storia della
propria anima
diretta alla
terra, vedere il
proprio destino
come parte e
analogo a quello
della divinità,
eppure nello
stesso tempo
anche come
oggetto di
quest'ultimo.
Perciò, viste
nella giusta
prospettiva, le
interpretazioni
contrastanti si
risolvono non in
maniera
alternativa, ma
complementare.