Di tutti i
problemi che
costantemente
hanno
preoccupato gli
uomini, ve ne è
uno, quello
dell’origine del
male, che pare
esser sempre
stato il più
difficile da
risolvere, tanto
da rivelarsi un
ostacolo
insormontabile
per la maggior
parte dei
filosofi e
soprattutto dei
teologi: Si
Deus est, unde
Malum?
Si non est, unde
Bonum?
Il dilemma è
effettivamente
insolubile per
coloro che
considerano la
Creazione come
l’opera diretta
di Dio e che, di
conseguenza,
sono obbligati a
ritenerlo
responsabile sia
del Bene che del
Male. Si dirà
senza dubbio che
questa
responsabilità è
in una certa
misura attenuata
dalla libertà
delle creature;
ma se le
creature possono
scegliere tra il
Bene ed il Male,
è segno che
entrambi
esistono già,
almeno in
principio, e se
esse talvolta
sono piuttosto
propense a
decidersi per il
Male invece di
essere sempre
portate al Bene,
ciò è dovuto al
fatto che sono
imperfette; ma
come ha potuto
Dio, se è
perfetto, creare
esseri
imperfetti?
È evidente che
il perfetto non
può generare
l’imperfetto,
perché, se così
fosse, il
perfetto
dovrebbe
contenere in se
stesso
l’imperfetto
allo stato
principiale ed
allora non
sarebbe più il
perfetto.
L’imperfetto non
può dunque
procedere dal
perfetto per via
di emanazione;
potrebbe solo
risultare dalla
creazione ex
nihilo; ma
com’è possibile
ammettere che
qualcosa possa
venire dal
nulla, o, in
altri termini,
che possa
esistere
qualcosa che non
abbia un
principio?
D’altronde,
l’ammettere la
creazione ex
nihilo
equivarrebbe ad
ammettere
l’annientamento
finale degli
esseri creati,
poiché ciò che
ha avuto un
inizio deve
anche avere una
fine, e non vi
sarebbe nulla di
più illogico del
parlare in tal
caso di
immortalità; del
resto la
creazione così
intesa non è che
un’assurdità,
perché essa
contraddice quel
principio di
causalità che
nessun uomo
ragionevole può
in buona fede
negare, per cui
possiamo dire
con Lucrezio «Ex
nihilo nihil, ad
nihilum nil
posse reverti».
Niente può
esistete che non
abbia un
principio; ma
qual è questo
principio? e non
vi è in realtà
un principio
unico di tutte
le cose? Se si
considera
l’Universo
totale, è
evidente che
esso comprende
tutte le cose,
perché tutte le
parti sono
contenute nel
Tutto; d’altra
parte, il Tutto
è propriamente
illimitato,
perché, se
avesse un
limite, ciò che
è al di là di
questo limite
non sarebbe
compreso nel
Tutto,
supposizione,
questa, assurda.
Ciò che non ha
limiti può
essere chiamato
l’Infinito, e,
comprendendo
esso tutto,
questo Infinito
è il principio
di tutte le
cose.
D’altronde,
l’Infinito è
necessariamente
unico, perché
due infiniti che
non fossero
identici si
escluderebbero a
vicenda; ne
consegue dunque
che non vi è che
un Principio
unico di tutte
le cose, e
questo Principio
è la Perfezione,
poiché
l’Infinito può
esser tale
solamente se
esso è perfetto.
Così la
Perfezione è il
Principio
supremo, la
Causa prima;
essa contiene
tutte le cose in
potenza, ed essa
ha prodotto ogni
cosa; ma allora,
poiché non v’è
che un Principio
unico, che ne è
di tutte le
opposizioni che
si colgono
abitualmente
nell’Universo:
l’Essere ed il
Non-Essere, lo
Spirito e la
Materia, il Bene
ed il Male? Ci
ritroviamo così
di fronte alla
domanda
formulata
all’inizio e che
ora possiamo
porre in un modo
più generale:
come ha potuto
l’Unità produrre
la Dualità?
Certuni hanno
creduto di dover
ammettere
l’esistenza di
due principi
distinti,
opposti l’uno
all’altro; ma
questa ipotesi è
da scartarsi per
quanto abbiamo
precedentemente
detto. Infatti
questi due
principi non
possono essere
entrambi
infiniti, perché
allora si
escluderebbero a
vicenda o si
confonderebbero;
se solo uno
fosse infinito,
esso sarebbe il
principio
dell’altro; e,
se entrambi
fossero finiti,
non sarebbero
veri principi,
poiché dire che
il finito può
esistere di per
se stesso
equivarrebbe a
sostenere che
qualcosa possa
venire dal
nulla: infatti
tutto ciò che è
finito ha un
inizio, logico
anche se non
cronologico. In
tal caso,
essendo entrambi
finiti, essi
devono procedere
da un principio
comune,
quest’ultimo
infinito, e così
siamo ricondotti
a considerare un
Principio unico.
Del resto, molte
dottrine,
abitualmente
ritenute
«dualistiche»,
non lo sono che
apparentemente;
nel Manicheismo,
così come nella
religione di
Zoroastro, il
dualismo era una
dottrina
puramente
exoterica che
celava la vera
dottrina
esoterica
dell’Unità:
Ormuzd e Ahriman
sono entrambi
generati da
Zervané-Akerene
e dovranno
fondersi in lui
alla fine dei
tempi.
La Dualità,
nell’impossibilità
di esistere di
per stessa, è
dunque
necessariamente
prodotta
dall’Unità; ma
in che modo può
prodursi? Per
comprenderlo
dobbiamo
anzitutto
considerare la
Dualità nel suo
aspetto meno
particolaristico,
quello
dell’opposizione
tra l’Essere ed
il Non-Essere;
ma poiché l’uno
e l’altro sono
necessariamente
contenuti nella
Perfezione
totale, appare
subito evidente
che tale
opposizione non
può essere che
apparente.
Sarebbe dunque
più giusto
parlare solo di
distinzione; ma
in cosa consiste
tale
distinzione?
esiste in realtà
indipendentemente
da noi, od è
semplicemente
una conseguenza
del nostro modo
di vedere le
cose?
Se per
Non-Essere si
intende il
nulla, è inutile
parlarne:
infatti cosa si
può dire del
nulla? Non così
se si considera
il Non-Essere
come possibilità
d’Essere;
l’Essere è
allora la
manifestazione
del Non-Essere
inteso in questo
modo, ed è
contenuto allo
stato potenziale
in tale
Non-Essere. Il
rapporto tra il
Non-Essere e
l’Essere è
dunque il
rapporto tra il
non-manifestato
ed il
manifestato, e
si può affermare
che il
non-manifestato
è superiore al
manifestato, di
cui è il
principio,
poiché contiene
in potenza tutto
il manifestato
ed anche ciò che
non è, che non
fu, né sarà mai
manifestato.
Nello stesso
tempo, è
evidente che non
si può parlare
qui di una
distinzione
reale, poiché il
manifestato è
contenuto in
principio nel
non-manifestato;
tuttavia, noi
non possiamo
concepire
direttamente il
non-manifestato
se non
attraverso il
manifestato;
questa
distinzione
dunque esiste,
ma unicamente
per noi.
Se ciò vale per
la Dualità colta
nel suo aspetto
di distinzione
tra l’Essere ed
il Non-Essere, a
maggior ragione
varrà per tutti
gli altri
aspetti della
Dualità. A
questo punto ci
si accorge
quanto illusoria
sia la
distinzione tra
Spirito e
Materia, sulla
quale nondimeno,
soprattutto nei
tempi moderni, è
stato costruito
un così gran
numero di
sistemi
filosofici
aventi appunto
tale distinzione
a fondamento
delle loro
teorie, va da sé
che se tale
distinzione
venisse meno,
nulla più
rimarrebbe di
tutti questi
sistemi. Inoltre
possiamo notare
che la Dualità
non può esistere
senza il
Ternario: se il
Principio
supremo,
differenziandosi,
dà luogo a due
elementi, i
quali del resto
sono distinti
solo in quanto
li reputiamo
tali, questi due
elementi ed il
loro Principio
comune formano
un Ternario,
sicché in realtà
è il Ternario e
non il Binario
ad essere
immediatamente
prodotto dalla
prima
differenziazione
dell’Unità
primordiale.
Ritorniamo ora
alla distinzione
tra il Bene ed
il Male, la
quale è appunto
un aspetto
particolare
della Dualità.
Quando si oppone
il Bene al Male,
generalmente si
fa consistere il
Bene nella
Perfezione. o
quantomeno in
una tendenza
alla Perfezione,
ed allora il
Male non è
nient’altro che
l’imperfezione:
ma come può
l’imperfetto
opporsi alla
Perfezione,
Abbiamo visto
che la
Perfezione è il
principio di
tutte le cose e
che, d’altra
parte, non può
produrre
l’imperfetto,
donde risulta
che in realtà
l’imperfetto non
esiste, o almeno
non può esistere
che come
elemento
costitutivo
della Perfezione
totale; ma
allora esso non
può essere
realmente
imperfetto, e
quel che noi
chiamiamo
imperfezione non
è che
relatività. Per
cui un «errore»
non è che una
verità relativa:
tutti gli
errori, infatti,
devono essere
contenuti nella
Verità totale,
poiché,
diversamente,
questa
trovandosi
limitata da
qualcosa di
esteriore a se
stessa non
sarebbe
perfetta, cioè
non sarebbe la
Verità. Gli
errori, o
piuttosto le
verità relative,
non sono che
frammenti della
Verità totale; è
dunque la
frammentazione a
produrre la
relatività, per
cui la si
potrebbe
ritenere la
causa del Male,
sempre che
«relatività»
fosse realmente
sinonimo di
«imperfezione»;
sennonché il
Male non è tale
se non quando lo
si distingue dal
Bene.
D’altra parte,
se si chiama
Bene il
Perfetto, il
relativo non ne
è realmente
distinto, poiché
v’è contenuto in
principio;
dunque, dal
punto di vista
universale, il
Male non esiste.
Esso esiste
solo, se si
considerano le
cose sotto un
aspetto
frammentario ed
analitico,
separandole dal
loro Principio
comune invece di
vederle
sinteticamente
contenute in
questo
Principio, che è
la Perfezione.
Così si crea
l’imperfetto; e
distinguendo il
Male dal Bene,
li si crea
entrambi proprio
con questa
distinzione,
poiché il Bene
ed il Male sono
tali solamente
se messi in
opposizione
l’uno all’altro;
inoltre, se il
Male non esiste,
non si può
neppure parlare
di Bene nel
senso
ordinariamente
attributo a
questa parola,
ma solamente di
Perfezione. È
dunque la fatale
illusione del
Dualismo ad
attuare il Bene
ed il Male,
ossia,
considerando le
cose da un punto
di vista
particolare, a
sostituire la
Molteplicità
all’Unità,
imprigionando
così gli esseri
su cui esercita
il suo potere
nel dominio
della confusone
e della
divisione: tale
dominio è
l’Impero del
Demiurgo.
II
Quanto abbiamo
detto sulla
distinzione tra
il Bene ed il
Male permette di
comprendere il
simbolismo della
Caduta
originale,
almeno nella
misura in cui
queste cose
possono venir
espresse. La
frammentazione
della Verità
totale, o del
Verbo, che è in
fondo la stessa
cosa,
frammentazione
che produce la
relatività, è
identica alla
segmentazione
dell’Adam
Kadmon, le
cui separate
particelle
costituiscono l’Adam
Protoplastes,
cioè il primo
formatore; la
causa di tale
segmentazione è
Nahash,
l’Egoismo o il
desiderio
dell’esistenza
individuale.
Nahash non è
affatto una
causa esteriore
all’uomo, ma è
in lui,
inizialmente
allo stato
potenziale,
diventandogli
esteriore nella
misura in cui
l’uomo stesso
l’esteriorizza;
questo istinto
di separatività,
per la sua
natura di
provocatore di
divisione,
spinge l’uomo a
gustare del
frutto
dell’Albero
della Scienza
del Bene e del
Male. Allora gli
occhi dell’uomo
si aprono,
perché ciò che
era interiore è
diventato
esteriore in
conseguenza
della
separazione che
si è prodotta
tra gli esseri;
questi appaiono
allora rivestiti
di forme, le
quali limitano e
definiscono le
loro esistenze
individuali; e
l’uomo pure è
rivestito di una
forma, o,
secondo
l’espressione
biblica, di una
«tunica di
pelle»; egli si
trova così
racchiuso nel
dominio del Bene
e del Male,
nell’Impero del
Demiurgo.
Da questa breve
esposizione per
sommi capi e
molto
incompleta,
risulta che il
Demiurgo non è
affatto una
potenza
esteriore
all’uomo: non è
che la stessa
volontà
dell’uomo
allorquando
realizza la
distinzione tra
il Bene ed il
Male. Ma in
seguito,
limitato in
quanto essere
individuale da
quella volontà
che in realtà è
la sua, l’uomo
la ritiene come
qualcosa di
esteriore, e
così essa
diventa distinta
da lui, non
solo, ma
opponendosi essa
agli sforzi che
l’uomo compie
per uscire dal
dominio in cui
s’è egli stesso
racchiuso, egli
la considera
come una potenza
ostile, e la
chiama
Shaitan,
l’Avversario.
Facciamo notare,
del resto, che
questo
Avversario, che
noi stessi
abbiamo creato e
che creiamo ad
ogni istante
(infatti non si
deve pensare che
la cosa si
svolga in un
tempo o in un
luogo
determinato) non
è affatto
cattivo in se
stesso, ma è
solamente
l’insieme di
tutto ciò che ci
è contrario.
Da un punto di
vista più
generale, il
Demiurgo, quale
potenza distinta
ed in quanto
tale, è appunto
il «Principe di
questo Mondo» di
cui si parla nel
Vangelo di S.
Giovanni; anche
qui, egli non è
propriamente
parlando né
buono né
cattivo, o
piuttosto egli è
l’uno e l’altro,
poiché contiene
in se stesso il
Bene ed il Male.
Il suo dominio è
il Mondo
inferiore, che
si oppone al
Mondo superiore
o all’Universo
principiale da
cui è stato
separato, ma
occorre rilevare
che questa
separazione non
è mai stata
reale in senso
assoluto; essa è
reale solo nella
misura in cui la
realizziamo,
perché questo
Mondo inferiore
è contenuto allo
stato potenziale
nell’Universo
principiale,
essendo evidente
che una parte
non può
realmente uscire
dal Tutto. È
questo,
d’altronde, che
impedisce alla
Caduta di
continuare
indefinitamente:
questa è
un’espressione
del tutto
simbolica, e la
profondità della
Caduta è
semplicemente la
misura del grado
di separazione.
Con questa
restrizione, il
Demiurgo si
oppone all’Adam
Kadmon o
all’Umanità
principiale,
manifestazione
del Verbo,
solamente come
una sorta di
riflesso, poiché
non ne è affatto
un’emanazione e
non esiste di
per se stesso;
ciò è
rappresentato
dalla figura dei
due Vegliardi
dello Zohar e
anche dai due
triangoli del
Sigillo di
Salomone.
Ciò ci induce a
considerare il
Demiurgo come un
riflesso
tenebroso ed
invertito
dell’Essere,
poiché altro non
può essere in
realtà. Esso non
è dunque un
essere, ma,
secondo quanto
abbiamo
precedentemente
detto, può
venire inteso
come la
collettività
degli esseri
nella misura in
cui essi sono
distinti o, se
si preferisce,
in quanto essi
hanno
un’esistenza
individuale. Noi
siamo esseri
distinti perché
creiamo noi
stessi la
distinzione, la
quale non esiste
se non nella
misura in cui la
creiamo; creando
questa
distinzione,
siamo gli
elementi del
Demiurgo, e,
fintantoché
siamo esseri
distinti,
apparteniamo al
dominio di
questo stesso
Demiurgo, il
quale è appunto
la «Creazione».
Tutti gli
elementi della
Creazione, cioè
le creature,
sono dunque
contenuti nel
Demiurgo,
stesso, il quale
non può trarli
che da se
stesso, perché
la creazione
ex nihilo è
impossibile.
Considerato come
Creatore, il
Demiurgo produce
per prima cosa
la divisione,
dalla quale non
è realmente
distinto, poiché
egli non esiste
che nella misura
in cui la
divisione stessa
esiste; inoltre,
siccome la
divisione è la
fonte
dell’esistenza
individuale, ed
essendo questa
definita dalla
forma, il
Demiurgo deve
essere
considerato come
formatore, ed
allora egli è
identico all’Adam
Protoplastes,
così come già
abbiamo visto.
Si può ancora
dire che il
Demiurgo crea la
Materia ‑
intendendo con
questa parola il
caos
primordiale,
crogiuolo di
tutte le forme –
per poi
organizzare
questa Materia
caotica e
tenebrosa, ove
regna la
confusione, e
farne scaturire
le molteplici
forme il cui
insieme
costituisce la
Creazione.
Si deve ora dire
che questa
Creazione sia
imperfetta?
Certamente non
la si può
considerare
perfetta; ma se
ci si pone dal
punto di vista
universale, essa
è uno degli
elementi
costitutivi
della Perfezione
totale. La
Creazione è
imperfetta solo
se la si
considera
analiticamente e
separata dal suo
Principio, e lo
è d’altronde
nella misura
stessa in cui
essa è il
dominio del
Demiurgo; ma, se
l’imperfetto non
è che un
elemento del
Perfetto, esso
non sarà
veramente
imperfetto, per
cui in realtà il
Demiurgo ed il
suo dominio non
esistono, dal
punto di vista
universale, così
come non esiste
la distinzione
tra il Bene e il
Male. Ne
consegue pure,
sempre dallo
stesso punto di
vista, che la
Materia non
esiste:
l’apparenza
materiale non è
che
un’illusione,
anche se non
bisogna
concludere che
gli esseri che
hanno questa
apparenza non
esistano, perché
altrimenti si
cadrebbe in
un’altra
illusione,
quella di un
idealismo
esagerato e mal
compreso.
Se la Materia
non esiste, per
ciò stesso
sparisce la
distinzione tra
Spirito e
Materia. Tutto è
Spirito in
realtà, ma
questo termine
deve essere
inteso in un
senso del tutto
diverso da
quello
attribuitogli
dalla
maggioranza dei
filosofi
moderni.
Costoro,
infatti, pur
opponendo lo
Spirito alla
Materia, non lo
considerano
affatto
indipendente
dalla forma, per
cui si può
domandare in che
cosa esso si
differenzi dalla
Materia; e se si
afferma che esso
è inesteso, a
differenza della
Materia che è
estesa, come si
può sostenere
che l’inesteso
possa esser
rivestito di una
forma? Del
resto, perché
questo volere
definire lo
Spirito? Che ciò
avvenga con il
pensiero o
altrimenti, è
sempre con una
forma che si
cerca di
definirlo, ed
allora non si
tratterà più
dello Spirito.
In realtà, lo
Spirito
universale è
l’Essere, e non
questo o
quell’altro
essere
particolare; è
il Principio di
tutti gli
esseri, e tutti
li contiene:
perciò tutto è
Spirito.
Quando l’uomo
perviene alla
conoscenza reale
di questa
verità,
identifica se
stesso ed ogni
cosa allo
Spirito
Universale, ed
allora ogni
distinzione per
lui scompare, ed
egli contempla
tutte le cose
come in se
stesso e non più
come esteriori,
perché
l’illusione
svanisce di
fronte alla
Verità, come
l’ombra davanti
al sole. Così,
da questa stessa
conoscenza
l’uomo si trova
liberato dai
legami della
Materia e
dell’esistenza
individuale, non
è più soggetto
alla dominazione
del «Principe di
questo Mondo»,
egli non
appartiene più
all’Impero del
Demiurgo.
III
Da quanto detto
in precedenza
risulta che
l’uomo, nella
sua esistenza
terrestre, può
liberarsi dal
dominio del
Demiurgo o del
Mondo ilico e
che questa
liberazione si
opera mediante
la Gnosi, cioè
mediante la
Conoscenza
integrale. Tale
Conoscenza non
ha niente in
comune con la
scienza
analitica e non
la presuppone
per nulla. È
un’illusione
troppo diffusa
ai giorni nostri
credere che si
possa arrivare
alla sintesi
totale
attraverso
l’analisi; al
contrario, la
scienza è del
tutto relativa
e, limitata
com’è al solo
Mondo ilico, non
esiste più di
quanto esista
quest’ultimo,
dal punto di
vista
universale.
D’altra parte
dobbiamo anche
notare che i
differenti
Mondi, o secondo
l’espressione
generalmente
ammessa, i
diversi piani
dell’Universo,
non sono affatto
luoghi o
regioni, ma
modalità
dell’esistenza o
stati
dell’essere. Il
che permette di
comprendere come
un uomo vivente
sulla terra
possa, in
realtà,
appartenere non
soltanto al
Mondo ilico, ma
al Mondo
psichico o anche
al Mondo
pneumatico. Ed è
questo che
costituisce la
«seconda
nascita»;
tuttavia, essa
corrisponde
propriamente
parlando solo
alla nascita al
Mondo psichico,
mediante la
quale l’uomo
diventa
cosciente in
entrambi questi
due piani, ma
senza accedere
ancora al Mondo
pneumatico, cioè
senza
identificarsi
allo Spirito
universale.
Quest’ultimo
viene raggiunto
unicamente da
chi possiede
integralmente la
triplice
Conoscenza,
mediante la
quale è per
sempre Liberato
dalle nascite
mortali: è ciò
che si intende
con
l’espressione
«solo i
Pneumatici sono
salvati». Lo
stato degli
Psichici non è
insomma che uno
stato
transitorio: è
lo stato
dell’esser già
preparato a
ricevere la
Luce, pur non
percependola
ancora, che non
ha ancora preso
coscienza della
Verità una ed
immutabile.
Parlando di
nascite mortali,
intendiamo le
modificazioni
dell’essere, il
suo passaggio
attraverso forme
molteplici e
variabili; in
ciò non vi è
nulla che
rassomigli alla
dottrina della
reincarnazione
quale la
concepiscono gli
spiritisti ed i
teosofisti,
dottrina della
quale un giorno
avremo
l’occasione di
dare maggiori
spiegazioni. Il
Pneumatico è
liberato dalle
nascite mortali,
è cioè liberato
dalla forma,
dunque dal mondo
demiurgico; egli
non è più
soggetto al
cambiamento e,
di conseguenza,
egli è non
agente; su
questo punto
ritorneremo più
avanti. Lo
Psichico,
invece, non va
oltre il Mondo
della
Formazione,
quello che è
designato
simbolicamente
come il Primo
Cielo o la sfera
della Luna,
donde egli
ritorna al mondo
terrestre; ciò,
in realtà, non
significa che
assumerà un
corpo sulla
Terra, ma
semplicemente
ch’egli dovrà
rivestire nuove
forme prima di
ottenere la
Liberazione.
Quanto abbiamo
sin qui esposto
dimostra
l’accordo, anzi,
l’identità
reale,
nonostante certe
differenze
nell’espressione,
tra la dottrina
gnostica e le
dottrine
orientali, e più
particolarmente
con il Vêdânta;
il più ortodosso
di tutti i
sistemi
metafisici
fondati sul
Brahmanesimo.
Possiamo quindi
completare le
nostre
considerazioni
riguardanti i
diversi stati
dell’essere con
alcune citazioni
tratte dal
Trattato della
Conoscenza dello
Spirito di
Shankarâchârya.
«Non vi è altro
mezzo se non la
Conoscenza per
ottenere la
liberazione
completa e
finale; essa è
il solo
strumento che
scioglie i
legami delle
passioni; senza
la Conoscenza,
la Beatitudine
non può esser
ottenuta.
«L’azione, non
opponendosi
all’ignoranza,
non può
rimuoverla; ma
la Conoscenza
dissolve
l’ignoranza così
come la Luce
dissipa le
tenebre».
L’ignoranza è
qui lo stato
dell’essere
avvolto nelle
tenebre del
Mondo ilico,
legato
all’apparenza
illusoria della
Materia e alle
distinzioni
individuali;
come abbiamo già
visto, tutte
queste illusioni
scompaiono per
mezzo della
Conoscenza, la
quale non
appartiene
affatto al
dominio
dell’azione e le
è superiore.
«Quando
l’ignoranza che
nasce dagli
attaccamenti
terrestri viene
allontanata, lo
Spirito brilla
di splendore suo
proprio in uno
stato indiviso,
così come il
sole risplende
nel cielo
allorquando le
nubi si sono
disperse».
Ma, prima di
pervenire a
questo grado,
l’essere passa
attraverso uno
stato
intermedio,
quello
corrispondente
al Mondo
psichico, ove
egli non crede
più di essere il
corpo materiale
bensì l’anima
individuale;
nondimeno la
distinzione
continua per lui
a sussistere,
poiché non è
ancora uscito
dal dominio del
Demiurgo.
«Immaginando
d’essere l’anima
individuale,
l’uomo è colto
dalla paura,
come chi per
errore scambia
un pezzo di
corda per un
serpente;
tuttavia il suo
timore viene
allontanato
dalla percezione
che egli non è
l’anima, ma lo
Spirito
universale».
Colui che ha
preso coscienza
dei due Mondi
manifestati,
cioè del Mondo
ilico, ossia
l’insieme delle
manifestazioni
grossolane a
materiali, e del
Mondo psichico,
ossia l’insieme
delle
manifestazioni
sottili, è un
«nato due
volte», Dwija;
ma colui che è
cosciente
dell’Universo
non-manifestato
o del Mondo
senza forma,
cioè del Mondo
pneumatico, e
che è arrivato
alla
identificazione
di se stesso con
lo Spirito
universale,
Âtmâ: quegli
solo può esser
chiamato Yogi,
cioè «unito»
allo Spirito
universale.
«Lo Yogi, il cui
intelletto è
perfetto,
contempla tutte
le cose in
quanto facenti
parte di se
stesso, e così,
con l’occhio
della
Conoscenza,
percepisce che
ogni cosa è
Spirito».
Notiamo per
inciso che il
Mondo ilico
viene paragonato
allo stato di
veglia, il Mondo
psichico allo
stato di sogno,
ed il Mondo
pneumatico allo
stato di sonno
profondo. Al di
sopra
dell’Universo
pneumatico,
secondo la
dottrina
gnostica, vi è
il Pleroma, il
quale può esser
inteso come
costituito
dall’insieme
degli attributi
della Divinità.
Esso non è un
quarto Mondo, ma
lo Spirito
universale
stesso,
Principio
supremo dei Tre
Mondi, né
manifestato, né
non-manifestato,
indefinibile,
inconcepibile e
incomprensibile.
Lo Yogi, o il
Pneumatico, che
sono in fondo la
stessa cosa, si
percepisce, non
più come una
forma
grossolana, né
come una forma
sottile, ma come
un essere senza
forma; egli si
identifica
allora allo
Spirito
universale,
stato che è così
descritto da
Shankarâchârya:
«Egli è Brahma,
dopo il cui
possesso non vi
è più nulla da
possedere; dopo
il godimento
della cui
felicità non v’è
altra felicità
che possa esser
desiderata; e
dopo
l’ottenimento
della cui
conoscenza non
v’è altra
conoscenza che
possa esser
ottenuta.
«Egli è Brahma,
la cui vista
elimina quella
di ogni altro
oggetto,
l’identificazione
con il quale
impedisce ogni
ulteriore
nascita, dopo la
cui percezione,
non v’è più
nulla da
percepire.
«Egli è Brahma,
che è dovunque:
nello spazio
mediano, in ciò
che gli è
superiore ed in
ciò che gli è
inferiore. Egli
è il Vero, il
Vivente, il
Beato, senza
dualità,
indivisibile,
eterno ed unico.
«Egli è Brahma,
senza
dimensioni,
increato,
incorruttibile,
senza forma,
senza qualità o
caratteristiche.
«Egli è Brahma,
dal quale tutte
le cose sono
illuminate, la
cui luce fa
brillare il sole
e gli altri
corpi luminosi,
ma che non è
punto reso
manifesto dalla
loro luce.
«Egli stesso
penetra la sua
propria essenza
eterna e
contempla il
Mondo intero
apparendo come
Brahma.
«Brahma non
rassomiglia
affatto al
Mondo, e al di
fuori di Brahma
non vi è nulla;
tutto ciò che
sembra esistere
al di fuori di
Lui è
un’illusione.
«Di tutto quanto
viene visto, di
tutto quanto
viene udito,
nulla esiste che
non sia Brahma,
e, mediante la
conoscenza del
Principio,
Brahma viene
contemplato come
l’Essere vero,
vivente, beato,
senza dualità.
«L’occhio della
Conoscenza
contempla
l’Essere vero,
vivente, beato,
che tutto
penetra; ma
l’occhio
dell’ignoranza
non può
scoprirlo, né
percepirlo, come
il cieco non può
vedere la luce.
«Quando il Sole
della Conoscenza
spirituale sorge
nel cielo del
cuore, esso
scaccia le
tenebre e tutto
penetra
abbracciando ed
illuminando ogni
cosa».
Facciamo notare
che il Brahma di
cui si parla qui
è il Brahma
superiore, da
non confondere
con il Brahma
inferiore, il
quale non è
altro che il
Demiurgo,
considerato come
riflesso
dell’Essere. Per
lo Yogi, non vi
è che il Brahma
superiore, che
contiene tutte
le cose e al di
fuori del quale
non v’è nulla:
per lui, il
Demiurgo e la
sua opera di
divisone non
esistono più.
«Colui che ha
compiuto il
pellegrinaggio
del suo proprio
spirito, un
pellegrinaggio
che nulla ha a
che vedere con
lo spazio e con
il tempo, un
pellegrinaggio
che si svolge
dappertutto, nel
quale non si
prova né il
freddo, né il
caldo, che
procura una
felicità
perpetua e una
liberazione da
ogni pena:
quegli è senza
azione, conosce
tutte le cose,
ed ottiene
l’eterna
Beatitudine».
IV
Dopo aver
esposto le
caratteristiche
dei tre Mondi e
degli stati
dell’Essere che
vi
corrispondono,
ed aver
indicato, per
quanto
possibile, che
cosa sia
l’essere
liberato dalla
dominazione
demiurgica,
dobbiamo
nuovamente
ritornare sulla
questione della
distinzione tra
il Bene ed il
Male, onde
vedere quali
conseguenze
possano trarsi
da queste ultime
considerazioni.
Di primo acchito
si potrebbe
esser tentati di
pensare così: se
la distinzione
tra il Bene ed
il Male è
illusoria, se
essa in realtà
non esiste, lo
stesso può dirsi
della morale,
poiché la morale
si fonda proprio
su tale
distinzione. Ma
sarebbe andar
troppo lontano.
La morale
esiste, ma nella
stessa misura in
cui esiste la
distinzione tra
il Bene ed il
Male, cioè
relativamente al
dominio del
Demiurgo, mentre
dal punto di
vista
universale, essa
non ha alcuna
ragione
d’essere.
Infatti la
morale può
trovare
applicazione
solo
nell’azione;
l’azione
presuppone il
cambiamento, il
quale non è
possibile che
nel formale o
nel manifestato;
per contro, il
Mondo senza
forma è
immutabile,
superiore al
cambiamento, e
quindi anche
all’azione,
perciò l’essere
che non
appartiene più
all’Impero del
Demiurgo è senza
azione.
Ciò dimostra che
occorre fare
molta attenzione
a non confondere
i diversi piani
dell’Universo,
perché quel che
si afferma a
proposito di un
piano può non
esser vero per
un altro. Ad
esempio, la
morale esiste
necessariamente
nel piano
sociale, che è
essenzialmente
il dominio
dell’azione,
mentre non se ne
può più parlare
quando si passa
a considerare il
piano metafisico
o universale,
poiché allora
non v’è più
alcun genere di
azione.
Chiarito questo
punto, dobbiamo
far rilevare che
l’essere che è
superiore
all’azione
possiede
tuttavia la
pienezza
dell’attività;
ma si tratta di
un’attività
potenziale,
quindi di
un’attività che
non si esplica
in azioni.
Questo essere
non è affatto
immobile, come a
torto si
potrebbe dire,
ma immutabile,
cioè superiore
al cambiamento.
In effetti, egli
si identifica
con l’Essere, il
quale è sempre
identico a se
stesso
conformemente
all’espressione
biblica:
«L’Essere è
l’Essere». Il
che ci induce ad
un accostamento
con la dottrina
taoista, secondo
la quale
l’attività del
Cielo è
non-agente: il
Saggio, in cui
si riflette
l’Attività del
Cielo, si
attiene al
non-agire.
Tuttavia questo
Saggio, che in
precedenza
abbiamo chiamato
Pneumatico o
Yogi, può
presentare le
apparenze
dell’azione,
così come la
Luna può
assumere le
apparenze del
movimento
allorquando le
nubi le passano
davanti, ma il
vento che
sospinge le nubi
non ha influenza
alcuna sulla
Luna.
Similmente,
l’agitazione del
Mondo demiurgico
non influisce
sul Pneumatico,
e, a questo
proposito,
possiamo ancora
citare alcuni
passi di
Shankarâchârya:
«Lo Yogi, avendo
attraversato il
mare delle
passioni, si
unisce alla
Tranquillità e
si allieta nello
Spirito.
«Avendo
rinunciato ai
piaceri offerti
dagli oggetti
perituri e
godendo delle
delizie
spirituali, egli
è calmo e sereno
come la fiamma
di una lampada,
e si delizia
nella sua
propria essenza.
«Durante la sua
permanenza nel
corpo, non è
modificato dalle
proprietà di
questo, così
come il
firmamento non è
turbato dal
movimento che si
svolge nel suo
seno; conoscendo
tutte le cose,
le contingenze
non lo toccano».
Possiamo così
comprendere il
vero significato
della parola
Nirvâna, di
cui sono state
date tante e
così false
interpretazioni.
Essa significa
letteralmente
«cessazione del
soffio e
dell’agitazione»,
dunque lo stato
di un essere che
non è più
soggetto
all’agitazione,
che è
definitivamente
libero dalla
forma. Un errore
molto diffuso,
almeno in
Occidente, è
quello di
ritenere che non
vi sia più nulla
quando si sia in
assenza di una
forma, mentre,
in realtà, la
forma è nulla e
l’informale è
tutto; per cui
il Nirvâna,
lungi
dall’essere
l’annientamento,
come hanno
preteso certi
filosofi, è. al
contrario la
pienezza
dell’essere.
Da tutto quanto
abbiamo sinora
esposto si
potrebbe
concludere che
non occorra
affatto agire;
ma ciò è ancora
inesatto, se non
in principio,
almeno
nell’applicazione
che se ne
vorrebbe fare.
Infatti l’azione
è propriamente
la condizione
degli esseri
individuali
appartenenti
all’Impero del
Demiurgo. Il
Pneumatico, o il
Saggio, è in
realtà senza
azione, ma,
risiedendo in un
corpo, è del
tutto simile
agli altri
uomini; tuttavia
sa che si tratta
solo di
un’apparenza
illusoria, e ciò
è sufficiente
affinché egli
sia realmente
affrancato
dall’azione,
poiché è
mediante la
Conoscenza che
si ottiene la
Liberazione.
Essendo
affrancato
dall’azione, non
è più soggetto
alla sofferenza;
questa non è che
un risultato
dello sforzo, ed
è in ciò che
consiste la
cosiddetta
imperfezione,
anche se in
realtà non vi è
nulla di
imperfetto.
È evidente che
l’azione non può
esistere per
colui che
contempla tutte
le cose in se
stesso, come
esistenti nello
Spirito
universale,
senza che vi si
distinguano
oggetti
individuali,
così come è
espresso dalle
seguenti parole
dei Vêda:
«Gli oggetti
differiscono
solamente per i
loro nomi,
accidenti e
designazioni,
così come le
suppellettili
ricevono nomi
differenti,
sebbene siano in
realtà solamente
diverse forme di
terra». La
terra, principio
di tutte queste
forme, è di per
se stessa senza
forma, ma tutte
le contiene in
potenza: tale è
anche lo Spirito
universale.
L’azione implica
il cambiamento,
cioè la
distruzione
incessante di
forme che
scompaiono per
essere
sostituite da
altre: tali sono
le modificazioni
che noi
chiamiamo
nascita e morte,
cioè i
molteplici
cambiamenti di
stato che devono
essere
attraversati
dall’essere che
non ha ancora
raggiunto la
liberazione o la
«trasformazione»
finale, parola,
questa, da
intendersi nel
suo significato
etimologico, che
è quello di
passaggio al di
là della forma.
L’attaccamento
alle cose
individuali, o
alle forme
transitorie e
periture è
proprio
dell’ignoranza;
le forme non
sono niente per
l’essere che è
liberato dalla
forma, ed è per
questo motivo
che egli, anche
durante la
permanenza nel
corpo, non è
modificato dalle
proprietà di
quest’ultimo.
«Così egli si
muove, libero
come il vento,
poiché i suoi
movimenti non
sono ostacolati
dalle passioni.
«Quando le forme
sono distrutte,
lo Yogi entra,
con tutti gli
esseri,
nell’Essenza che
tutto penetra.
Egli è senza
qualità e senza
azione;
imperituro,
senza volizione;
felice,
immutabile,
eternamente
libero e puro.
«Egli è come
l’etere che è
diffuso
dappertutto, e
che penetra nel
contempo
l’esterno e
l’interno delle
cose; egli è
incorruttibile,
imperituro; egli
è sempre lo
stesso in tutte
le cose, puro,
impassibile,
senza forma,
immutabile,
«Egli è il
supremo Brahma,
che è eterno,
puro, libero,
solo,
incessantemente
colmo di
beatitudine,
senza dualità,
Principio di
ogni esistenza,
e senza fine».
Questo è lo
stato al quale
perviene
l’essere
mediante la
Conoscenza
spirituale,
liberato per
sempre dalle
condizioni
dell’esistenza
individuale,
liberato cioè
dall’Impero del
Demiurgo.
(Palingenius,
alias René
Guénon, La Gnose
n. 1, 1909).